Quale via d’uscita per l’Italia? Come riprendere la strada dello sviluppo? Non c’è dubbio che occorra reagire rapidamente superando la sindrome di disorientamento da Paese bloccato. Ma questo richiede anzitutto un’analisi realistica che allunghi lo sguardo, legando le risposte immediate a una prospettiva di lungo periodo. Stimoli interessanti in questa direzione sono stati offerti da Giuseppe De Rita in un suo recente intervento (sul Corriere della Sera del 23 settembre).
Con chiarezza viene esposta la diagnosi. In un contesto di crescente internazionalizzazione un Paese può contare su due risorse chiave che sono anche in grado di compensarsi a vicenda: la credibilità della sua politica e della sua economia. Per esempio, nell’immediato dopoguerra la politica “forte” di De Gasperi ha compensato la fragilità socio-economica. Negli anni 70 e 80 il dinamismo locale delle piccole aziende e dei distretti del made in Italy ha compensato il disordine pubblico. Il guaio dell’Italia in questo momento è che entrambe le risorse appaiono deboli.
La terapia discende dalla diagnosi: sulla fragilità della politica sembra oggi difficile un rapido recupero. Una politica più forte, «di lungo periodo e di disegno complessivo di sistema», è necessaria ma richiederà tempo. Tocca quindi all’economia riaffermare la sua forza e la sua reputazione. Ci sono segni di vitalità nell’economia (come indicano la crescita dell’export e la riorganizzazione di molti distretti) e più in generale nella società civile a livello locale (associazionismo, Terzo Settore). De Rita chiama dunque i soggetti di questi mondi a «un protagonismo pieno, sanguignamente collettivo, corale e non delegato».
Ma siamo sicuri che questo schema da anni 70 possa funzionare? Ci sono almeno tre motivi che spingono a dubitarne. Il primo è che dopo l’euro, e con la crescita della globalizzazione, il dinamismo locale è più direttamente dipendente dal disordine pubblico. Da un lato, perché non si può svalutare e compensare le inefficienze delle istituzioni pubbliche in termini di beni collettivi. Dall’altro, perché il riposizionamento del made in Italy imposto dalla globalizzazione richiede un ruolo attivo della politica nel favorire le economie esterne necessarie (costo dei servizi, infrastrutture, ricerca, ecc.).
Il secondo ordine di motivi ha a che fare con le basi socio-culturali del dinamismo locale. La storia dell’industrializzazione di massa degli anni 70 è stata una storia di mobilitazione, di voglia di affermarsi e di migliorare le proprie condizioni da parte di una moltitudine di soggetti. Tutti i segnali che si colgono oggi mostrano come quel ciclo si sia esaurito e gravi come un macigno sul futuro del Paese – e sui giovani che ne sono gli artefici potenziali – una sfiducia diffusa. Ci sono certo i segnali di dinamismo e di innovazione, ma bisogna chiedersi quanto siano diffusi e sufficienti per fare da traino a fronte di tendenze di segno opposto. Si pensi alla crescente patrimonializzazione – favorita dalla tradizionale porosità dei rapporti tra famiglie e imprese –, ma anche alla diffusione di un capitalismo politico-criminale che vive di redistribuzione e pesa su quanti devono misurarsi nei mercati internazionali. Infine, nel mondo integrato della globalizzazione di oggi le basi reputazionali della politica contano molto di più di prima, perché hanno conseguenze dirette per il tramite dei mercati finanziari sulle possibilità dell’economia reale e sul suo finanziamento. Questo fattore è stato gravemente sottovalutato nei mesi passati a favore della ricerca di una stabilità rivelatasi insufficiente.
In ogni caso, di fronte all’incedere travolgente della crisi finanziaria, una maggiore consapevolezza dei protagonisti del mondo economico della più stretta dipendenza dell’economia dalla politica si è fatta chiaramente strada. Le recenti prese di posizione di Confindustria e della sua presidente ne sono un chiaro segno. E sarebbe opportuno che tale consapevolezza portasse a una maggiore unità di intenti di tutte le rappresentanze del mondo delle imprese (per esempio Rete Imprese Italia) e anche del lavoro. Non illudiamoci, dunque. Non c’è più spazio per una società civile che compensi le inefficienze della politica. La situazione è a tal punto compromessa che le forze sane della società civile dovrebbero oggi chiedere – come stanno facendo – scelte efficienti e insieme veramente eque per essere accettate. Forse dovrebbero anche spingersi a sostenere un governo straordinario capace di autonomia dalle forze politiche di destra e di sinistra, perché la politica non sembra in grado – al momento – di offrire una risposta efficiente e equa, capace di far ripartire il paese. E non è rimasto più tempo.
Il Sole 24 Ore 29.09.11