La questione delle reggenze, che costringerà la metà delle istituzioni scolatiche ad avere un dirigente “dimezzato” (in alcune regioni la percentuale supera il 65%), pone problemi che non riguardano solo la gestione delle scuole in quest’anno scolastico (e, molto presumibilmente, nel prossimo). A parte il fatto che l’emergenza “Istituti scoperti” non nasce oggi e che solo la miopia e il pressappochismo del nostro ceto politico ha impedito di intervenire con la necessaria tempestività, un primo interrogativo che andrebbe posto è: perché, al riguardo, c’è stata così tanta rassegnazione e accettazione passiva tra gli stessi dirigenti, oltre che nelle organizzazioni e associazioni che li rappresentano? Pur essendo tutti consapevoli delle difficoltà e dei rischi che le reggenze così diffuse comportano?
Sappiamo che in alcuni casi, soprattutto nei DS a fine carriera, ci sono state motivazioni di tipo economico: può far comodo, pensando anche alla pensione, arrotondare lo stipendio con un’accettabile integrazione (che, comunque, non riesce – ritengo – a compensare le responsabilità e lo stress di gestire due istituti).
In altri casi è sembrato invece prevalere lo spirito di servizio e il senso di responsabilità.
In altri ancora, ha pesato l’obbligo previsto dalla norma.
Quella che emerge comunque è la tendenza a evidenziare il meno possibile la drammaticità – e pericolosità – dell’attuale situazione.
Qualche giornale ne parla. Generalmente fanno notizia i casi eclatanti come quello della DS di Genova che è a capo di due istituti – con 69 classi complessive e più di 1300 studenti – le cui sedi e sezioni (17!) sono dissseminate su ben 12 comuni (“La Repubblica” di qualche giorno).
Nelle dichiarazioni attribuite alla DS genovese – non dissimili da quanto si sente in giro da parte di capi di Istituto – colpisce la spiegazione riportata: “Il DS di oggi non ha bisogno di andare tutti i giorni di scuola in scuola. Deve amministrare e organizzare”.
Quello che conta, quindi, sarebbe una sorta di direzione circoscritta sostanzialmente agli adempimenti di natura burocratica e gestionale; sono questi che legittimerebbero e renderebbero accettabili impegni e responsabilità di un DS con reggenza.
Ovviamente il richiamo alle “perplessità” e alle “pesanti difficoltà” è una costante nei ragionamenti tra gli interessati.
Comunque è prevalente l’atteggiamento che tende a considerare l’incarico come “sfida” e “scommessa” per garantire un minimo di regolarità al servizio scolastico, soprattutto sotto il profilo amministrativo e, in genere, burocratico. Come se questo “abc” della funzione del DS potesse bastare a dirigere scuole ormai divenute tutte piuttosto complesse. O come se l’”esserci” anche fisicamente, dentro le situazioni e dentro le relazioni a scuola, fosse una sorta di “optional” e non, invece, condizione “materiale” necessaria per svolgere al meglio le varie funzioni dirigenziali.
L’idea che tutto questoinduca a una certa svalutazione del ruolo del DS agli occhi della gente e ad una sua visione riduttiva anche nella percezione dello stesso dirigente, non sembra preoccupare granchè: non è necessario un dirigente a tempo pieno; si può dirigere una scuola, per quanto complessa, assicurandone la presenza a giorni alterni o anche meno. Questo il messaggio.
Una visione, come si avverte, riduttiva anche rispetto all’immagine, da nessuno teorizzata, ma qualche volta praticata, del DS come figura preoccupata essenzialmente della correttezza delle procedure e del rispetto delle norme generali..
Ma certamente ancora più riduttiva è tale visione rispetto all’idea del Dirigente come leader che si connoti per la sua funzione di garantire l’efficacia del servizio, puntando a sviluppare nelle varie componenti il senso di una impresa comune e di traguardi condivisi e socialmente importanti.
D’altra parte, la normativa vigente (D.L.vo 165/2001, art. 25) esclude, sul punto, l’idea di una Dirigenza Scolastica – prefigurata in questa situazione di reggenza diffusa – così poco “dirigente”. E non si vede compatibilità anche rispetto allo stesso Decreto Brunetta sul personale della Pubblica Amministrazione, che, come sappiamo,guarda al dirigente essenzialmente come funzionario della Pubblica Amministrazione.
E l’Amministrazione in tutto questo?
Certamente le vanno imputate, in primo luogo, una gestione sbagliata degli organici e l’obiettivo del risparmio a prescindere. Ma, nei suoi comportamenti e nelle sue scelte, non si vede anche, in controluce, la volontà di fare dell’”esperienza reggenze” una sorta di prova generale rispetto a nuove logiche di dimensionamento? Volte a configurare istituzioni scolastiche dimensionate su parametri più elevati, desumibili, per esempio, dall’accorpamento delle sedi di titolarità e di quelli di reggenza?
Le disposizioni contenute nella manovra finanziaria del luglio scorso – che fissano in non meno di mille studenti (attualmente, oscillano tra i 500 e i 900 studenti) i termini del dimensionamento delle scuole del primo ciclo – temo si muovano in questa direzione. E prefigurino, quale che sia la valutazione al riguardo, una diversa connotazione della leadership scolastica rispetto al passato.
Non credo, chiarisco subito, che sia scandaloso in sé il fatto che “crescano” i parametri del dimensionamento scolastico.
Negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, il preside Angelo Malinverno, figura storica della scuola milanese, sulla scorta anche di studi sui modelli europei (soprattutto di Gran Bretagna, Francia e Germania, dove gli istituti superiori sono megascuole con popolazione scolastica anche oltre i 2000 studenti), aveva ipotizzato che una figura di “superpreside” – con una serie opportuna di misure organizzative facilitanti – fosse quella più adatta a valorizzare la funzione dirigenziale del capo di Istituto, potenziandone il prestigio a livello di territorio, ma anche creando le condizioni per “stipendi dirigenziali”, a motivo del diminuito numero di dirigenti scolastici.
Nella visione di Malinverno però la leadeship doveva continuare ad essere – ma non era chiaro come – anche di tipo educativo, secondo la migliore tradizione del nostro paese.
Se ne parlò a suo tempo senza eccessive drammatizzazioni, insistendo molto su senso e fattibilità della proposta in quella fase.
Questo per dire che, anche oggi, a maggio ragione, non ci devono essere tabù al riguardo. Ma, paletti che non tendano a ridurrre la dirigenza scolastica a pura managerialità e la figura del DS a semplice funzionario dell’amministrazione, questi sì.
La stortura che vedo, è, ancora una volta, quella di prendere provvedimenti importanti senza le dovute analisi e riflessioni – dentro la categoria e con chi la rappresenta, oltre che tra gli esperti -. E si tratta, come si capisce, di provvedimenti importanti perché riguardano cambiamenti di ruolo del DS, i nuovi assetti organizzativi che tali cambiamenti comportano, le ragioni che possano giustificare – anche sul piano dell’efficacia e della economicità – dimensioni diverse degli istituti scolastici.
D’altra parte, il provvedimento – anche questo, nella manovra finanziaria del luglio scorso – di abolire la deroga per esoneri e semiesoneri rispetto ai parametri previsti è, da questo punto di vista, una spia abbastanza preoccupante che quello a cui si interessa l’Amministrazione non sono i ragionamenti su un modello diverso e migliore di scuola, ma semplicemente la quadratura di un cerchio che con queste logiche non si chiuderà mai, come i fatti dimostrano.
Non sembri quindi una forzatura partire dalla questione “reggenze” per evidenziare rischi e timori sottesi a operazioni di ben altra portata, visto che riguardano i modelli di “governance” – interni e di sistema – del pianeta “scuola e formazione”.
Di operazioni striscianti, dentro scelte apparentemente dettate dalla necessità, ne abbiamo viste fin troppe in questi anni. La descolarizzazione della società, nell’edizione Tremonti/Gelmini – di cui ci hanno reso avvertiti nei mesi scorsi Tiriticco e De Anna – non è una, e forse la più preoccupante, di queste?
Fondamentale è quindi che il gioco si svolga a carte scoperte e sia condotto “sine ira et studio”: atteggiamenti alla Brunetta o alla Sacconi, sono, non solo indecorosi, ma anche perdenti. E soprattutto con l’occhio rivolto più alla qualità dei processi che si vogliono attivare e meno ai risparmi sul breve periodo che si intendono realizzare.
E’ d’obbligo più che mai la consapevolezza delle poste in gioco e l’impegno a evitare a tutti i costi che il gioco sia opaco e furbesco. O approssimativo.
da ScuolaOggi 27.09.11