Se parli con docenti e dirigenti prima o poi viene avanti la questione che si ripete per ogni generazione: «i ragazzi di oggi sono diversi». Quando si evitano saggiamente gli stereotipi e si entra nell’argomento, si riesce a definire questa loro diversità: si fa fatica a fare lezione come una volta perché questi ragazzini sono qui per stare insieme e si devono conquistare all’attenzione e al lavoro senza poter contare sulle regole che non hanno sedimentato dentro. Atteso che ogni ragazzino è diverso, è evidente che vi è un indebolimento di regolazioni interne, di «quella roba che strutturava il super-io» – come ama dire un amico docente. Sono, poi, quasi assenti, nell’esperienza dei bambini, i luoghi dedicati alla socializzazione: cortili, paese, campagna, quartiere. Posti dove si gioca e si scopre il mondo lontano dagli adulti e si costruiscono comportamenti tra pari basati sul merito e la reciprocità e dove si fa, ben prima che a scuola, l’esperienza del piacere di stare insieme. Ma cosa stanno facendo tante scuole in risposta alla nuova scena educativa? Lo chiedo al prof. Gustavo Piteropolli Charmet, che è un’autorità sui modelli educativi e sulle nuove fragilità durante la crescita e lavora da anni con le scuole. «Tra gli indirizzi educativi che tante scuole stanno sperimentando ne elenco tre. Accogliere il bisogno di socializzazione e lavorare a una sua evoluzione costruttiva. Presiedere il limite con costanza e pacatezza, ma parlandone con i ragazzi e mettendo la questione delle regole in diretta relazione con avventure di apprendimento anche impegnative, da fare insieme. Dedicare spazi e tempi per ragionare e pattuire con i genitori il cosa e come fare, ognuno per la sua competenza ma d’accordo».
Qui Trentino
Andrea Schelfi è dirigente dell’Istituto professionale provinciale Pertini di Trento, 600 alunni che perseguono la qualifica di falegname o quella di parrucchiere o estetista. Insieme ad altri 7 istituti professionali del Trentino ha dato vita al progetto Campus: molte attività socializzanti dallo sport alla musica al teatro, patti con le famiglie, tutor per ogni ragazzo il primo anno, nuove misure contenitive, capaci di ricostruire dialogo e consapevolezza. «Questi ragazzi spesso sono troppo soli e troppo protetti. Altre volte conoscono realtà difficili. La prima regola è differenziare gli interventi, guardare alla persona. I consigli di classe sono la cellula che fa funzionare la relazione educativa e l’apprendimento. Di fronte alle nuove fragilità c’è da lavorare sul gruppo docente, scommettendo sulla sua capacità di coniugare attenzione all’apprendimento e attenzione alla crescita. Non è facile. Ma un gruppo adulto coeso e che riflette aiuta a costruire un gruppo di ragazzi, una classe che sa ugualmente lavorare insieme. Intorno a obiettivi, a sfide formative chiaramente definite. Poi c’è il limite da mantenere. Non esiste accoglienza senza limite. E noi stiamo imparando che, di fronte alle distruttività ma anche ai silenzi ci vuole uno spazio-tempo dedicato. Dove fermarsi, riparare, ricevere attenzione per poi ripartire. La sospensione e la nota da soli non consentono questo. Dobbiamo favorire cambiamenti, puntare sulle trasformazioni dei gruppi e dei singoli adolescenti».
Qui Calabria
Dall’altro capo dell’Italia e in tutt’altro tipo di scuola Saverio Pazzano non dice cose dissimili. Docente di Italiano, Greco e Latino nel liceo classico paritario San Vincenzo di Reggio Calabria, è educatore e formatore nazionale scout. «Il patto con le famiglie esiste da noi come in tante scuole pubbliche. Noi lo sottolineiamo come un prendere un impegno. Come nelle amicizie tra persone diverse, di età diverse. Nello scoutismo come nella vita si impara che l’amicizia è esigente». Gli dico che molte scuole hanno ricominciato a chiedere. E funziona. «Noi chiediamo ai ragazzi di fare volontariato e uscire dal loro mondo protetto. Andiamo insieme nelle mense per poveri. Si creano impegni e soprattutto relazioni, ci si interroga. Andiamo poi a Napoli, quartiere Sanità. E lì tengono un doposcuola per periodi estivi. E questo apprendere si riversa anche sull’apprendimento disciplinare, non è un’altra cosa. Anzi, gli ridà senso».
La Stampa 26.09.11