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"Se la finanza troppo avida calpesta i diritti umani", di Guido Rossi

Una notizia sconvolgente è quasi passata in sordina nelle prime pagine dei giornali. Si tratta dell’avvenuta esecuzione della condanna a morte, nello Stato americano di Georgia, ove il razzismo è un fenomeno radicato, di Troy Davis, un nero accusato di aver ucciso più di vent’anni fa un poliziotto bianco. Nessuna prova materiale sulla sua colpevolezza; all’opposto numerose denunce di testimoni di essere stati conculcati dalla polizia per identificarlo e confessione di uno dei testi di essere stato l’omicida. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di riesaminare il caso, come ha correttamente ricordato ieri su Repubblica Alexander Stille, con un no espresso anche da Clarence Thomas, anche lui di colore, e non a caso nominato da George Bush.

Mi si potrà chiedere a questo punto perché una condanna a morte nello Stato della Georgia abbia, a parer mio, un così grave riflesso sulla devastante crisi economica in atto. La ragione è evidente, poiché l’incapacità di risolvere la crisi è, da ogni parte, attribuita alla debolezza dei Governi e delle istituzioni politiche. Crisi dunque istituzionale più che strutturale.

Si fa in Europa pesare il deficit della politica, ma si colgono poco negli Usa gli sconquassi che il capitalismo finanziario ha portato alla democrazia americana, intontita da un’ideologia consumistica della società civile e da una pubblica opinione che sempre più alimenta le disuguaglianze e sostituisce al democratico mito degli uguali l’etica dell’egoismo.

Il nuovo candidato repubblicano alle presidenziali, attuale governatore del Texas, pur avendo mandato a morte 234 persone, ha dichiarato – con plauso generale – che dopo ogni nuova esecuzione dorme sonni tranquilli. Sembra poi paradossale che questa ideologia sia appannaggio anche della Chiesa cattolica, che pubblicamente ostenta riprovazione verso quei principi, ma poi mantiene una legittimazione della pena di morte nei propri dettami del Catechismo, all’art. 2267, ove: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte».

In questa trappola, dopo passate decisioni d’incostituzionalità della pena capitale, è caduta la Corte Suprema Usa, che dalla morte di William Rehnquist e le dimissioni di Sandra O’Connor, con le nuove nomine della presidenza Bush ha subìto una chiara involuzione nella difesa dei diritti umani, come quello che coinvolge la pena di morte.

Ne è un esempio eclatante la sbandata rappresentata dalla sentenza Citizen United v. Federal Election Commission dello scorso anno, che ha addirittura utilizzato il primo emendamento della Costituzione americana, il diritto umano alla libertà di espressione, per proteggere la libertà delle grandi imprese finanziarie di spendere senza limiti fondi societari per l’elezione di candidati politici, incoraggiando gravi intrecci fra affari e politica e aprendo la strada al fenomeno corruttivo. Il presidente Obama allora, ma oggi ben più tiepido, denunciò la sentenza come una catastrofe per la democrazia americana. E a questa denuncia seguì un violento attacco di uno dei maggiori filosofi americani, Ronald Dworkin, e di molti altri.

È il predominio culturale dell’economia finanziaria che ha sottratto i fondamentali diritti del cittadino e la stessa protezione dei lavoratori e delle classi più deboli a vantaggio degli interessi del consumatore e degli speculatori. Continuino pure gli economisti a dichiarare che l’America è certamente in una situazione migliore dell’Europa, e magari a citare il loro premio Nobel Gary Becker che lo Stato ha una “moral obligation” a usare la pena di morte, ma si rendano conto una volta per tutte che la vera crisi che ha portato al dominio della finanza sull’economia reale, all’occupazione del capitalismo finanziario sulle istituzioni democratiche, rende queste impotenti a risolvere i problemi. Paura, insicurezza, diritti oscurati, insopportabile forbice fra ricchi e poveri, inarrestabile declino economico non sono solo dovute alla mancanza di leader europei contro la quale si è scagliato Delors, o all’incapacità politica di Obama incurante spesso del diritto internazionale e dei diritti umani, oppure alla dittatura italiana di una maggioranza parlamentare svergognata.

La causa sta invece principalmente nella cultura occidentale degradata a principi di avidità che travolgono qualunque tessuto connettivo di una società civile. La cultura del capitalismo ha ucciso i diritti umani.

La soluzione dei problemi non sta dunque nelle sempre più scomposte ricette economiche, da qualsivoglia parte arrivino, bensì in un nuovo ius gentium, quel diritto delle genti la cui esistenza veniva già rivendicata dal grande Gianbattista Vico. Diritto che conceda alla cultura europea di riemergere rivendicando i diritti fondamentali della sua civiltà, già individuati più volte anche dalle Nazioni Unite, e alla democrazia americana di ricordare i suoi padri fondatori Madison e Hamilton e garantire l’autonomia delle istituzioni democratiche e i fondamentali diritti dell’uomo.

Il Sole 24 Ore 25.09.11

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