Riemerge una fragilità ulteriore di un Governo già surriscaldato da critiche d’inadeguatezza: l’asse forte tra Berlusconi e Bossi si sta trasformando in debolezza determinante per la maggioranza. Il leader del Carroccio, in questi giorni, ha rilanciato la pista secessionista, in realtà nascondendo l’amarezza per i rischi di sfarinamento del federalismo sotto il cielo blu crudo delle difficoltà delle finanze pubbliche. In effetti, si fa sentire, sulla prospettiva federalista, l’impatto del delicato momento che il Paese sta attraversando, posto com’è in un’ala del Purgatorio, al cospetto delle porte dell’Inferno.
Il ceto politico di governo continua a promettere che non ci verremo scaraventati. Ne sono meno convinti i governatori e i sindaci, i ceti politici locali, che nei giorni scorsi sono entrati in ebollizione per la soppressione delle Province, per l’estensione delle regole del patto di stabilità interno a tutti i Comuni e, soprattutto, per il nuovo pesante taglio dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali e regionali. Hanno sostenuto, in modo bipartisan, che tutto ciò costituisce un colpo di grazia alla fiducia nei confronti delle istituzioni locali.
È quindi riemerso un duello tra ceti politici nazionali e ceto politico locale, apertosi fin dalle lontane prime promesse federaliste di questa Seconda Repubblica. Mentre sui costi della politica, i ceti politici nazionali e quelli locali sono riusciti per ora a glissare – affidando a un controverso, ma già silenziato, iter il dimezzamento dei parlamentari e l’abolizione delle Province – il governo delle risorse pubbliche decrescenti, spartite tra centro e periferia, costituisce un campo di tensione mai sopito anche nella maggioranza. Non a caso, il presidente della Lombardia, di recente, è stato molto polemico con il Governo per quanto previsto in manovra nei confronti di enti locali e regionali. Lo stesso Lombardo, governatore dell’altra Regione-chiave del centro-destra, la Sicilia, non le ha certo risparmiate al Governo. Governatori e sindaci hanno protestato un po’ ovunque, sostenendo che i tagli alle loro amministrazioni graveranno sui cittadini, sia nel caso di un ridimensionamento dei servizi offerti sia in quello di un inasprimento della pressione fiscale locale.
Ma non abbiamo visto manifestazioni di cittadini a fianco dei loro amministratori locali. Come mai? Forse i cittadini non hanno capito le conseguenze gravi di questo provvedimento, nonostante il diluvio bipartisan di parole dei loro primi cittadini e governatori. Più probabilmente, tuttavia, gioca il loro disincanto verso i ceti politici locali che avrebbero dovuto riavvicinare le istituzioni e la politica alle esigenze della gente. Insomma, i cittadini hanno vissuto questa promessa come un ennesimo inganno del ceto politico, un inganno costoso di questa Seconda Repubblica che ha visto una faraonica moltiplicazione delle poltrone proprio in periferia, ammantandola da un’architettura istituzionale-amministrativa a dir poco barocca.
Gli italiani, la cui fiducia è bruscamente calata nei confronti delle istituzioni locali in questi anni di crisi (-5% nel 2010 rispetto al 2009, Eurobarometro), considerano ormai i ceti politici locali altrettanto “spreconi” e autoreferenti e pertanto ritengono che i tagli debbano essere riassorbiti da un ridimensionamento dei loro privilegi e dei costi della politica locale. Sembrano ormai sbiaditi nella memoria i tempi in cui la critica alle élite nazionali lasciava guardare con fiducia speranzosa a una maggiore autonomia dei ceti politici locali, con la vela della Lega che prendeva vantaggio da questo vento e con le amministrazioni locali pensate come “palestre” per generare una nuova classe dirigente. Molte inchieste giornalistiche, nel frattempo, hanno mostrato che di casta si tratta: i ceti politici locali non scherzano in sprechi e privilegi. Ora, mentre le turbolenze finanziarie mordono, lo “snellimento” riguarda proprio loro, il loro numero, le loro indennità, i loro vitalizi e privilegi.
Questo cambiamento di umore sociale nei confronti delle istituzioni e degli amministratori locali, oggi, non lascia indifferente Bossi, il quale lamenta un federalismo incompiuto, che rischia di corrodersi prima di essere attuato. Il fatto che il federalismo non abbia ancora assunto le sembianze desiderate dal leader leghista dimostra che Berlusconi, un po’ come fece Lenin, ha decantato il federalismo prevalentemente in funzione di un indebolimento del parlamentarismo, per poi imporre un potere esecutivo “personalizzato”. In sostanza, lo scetticismo verso il parlamentarismo è stato un forte collante che ha unito in questi anni la vocazione al presidenzialismo di Berlusconi e il federalismo autarchico di Bossi. A conferma, il Porcellum di Calderoli aveva inviato un esplicito siluro all’autorevolezza di un parlamentarismo composto da membri nominati dai leader dei due schieramenti.
Con questi presupposti, Berlusconi, in realtà, ha raggiunto ciò che si prefiggeva, un “presidenzialismo di fatto” e un “parlamentarismo virtuale”, mediante i quali continua a tenere sotto scacco uno scenario politico privo di un progetto credibile di crescita e di sviluppo del Paese. Al contempo, Bossi è di nuovo tentato a trincerarsi nel partito di lotta “Padania libera”: ma l’interesse per le piccole patrie sta tramontando, ora che la crisi richiede non solo una risposta corale nazionale, ma addirittura europea. E la sinergia tra i due leader sta evaporando.
Il Sole 24 Ore 25.09.11