Anticipiamo qui un brano delle memorie di uno dei più importanti protagonisti della nostra Resistenza: racconta l’antifascismo, la guerra partigiana, l’impegno politico. E smaschera tutte le menzogne sull’azione del ’44. Il mio impegno militare e politico contro il fascismo e per la democrazia non si è mai trasformato in carriera politica, anche se negli anni successivi sono stato un «militante impegnato». Finita la guerra non ho piú avuto nemici ma solo avversari, anche se mi capita spesso di essere oggetto di odiose persecuzioni e aggressioni personali, soprattutto per l’azione militare di via Rasella che condussi insieme ad altri undici compagni dei Gap.
La feroce strage compiuta dai nazifascisti tedeschi e italiani alle Ardeatine sta a dimostrare quanto fossero efficaci le consistenti iniziative militari della Resistenza, cosí com’è accaduto in tutta l’Europa occupata, e quanto male avesse fatto la Resistenza a quel nemico.
Le condanne assolutamente uniformi che ne sono conseguite nei tribunali internazionali e nazionali, militari e civili sono uno dei riconoscimenti piú significativi, anche dal punto di vista storiografico, della correttezza delle iniziative militari dei partigiani europei nel corso del secondo conflitto mondiale, malgrado i piagnistei che esalano dal coro, stonato seppur consistente, che canta la «Saga dei Vinti».
Nel corso della mia vita non mi sono mai pentito di aver partecipato a quell’azione di guerra, anzi l’ho sempre rivendicata con orgoglio. Centinaia di giornali, di manifesti, di oratori nei comizi ci hanno fatto oggetto di una campagna di calunnie, di diffamazione, di menzogne. Ho ricevuto lettere anonime di fascisti (e non) con insulti, volgarità, con grottesche ma violente minacce di morte, o telefonate di gente che non dichiara mai la propria identità. Alla Camera dei deputati, durante i dibattiti parlamentari, onorevoli gentiluomini, deputati della destra postfascista, insultarono Carla Capponi, «grande invalida» e «medaglia d’oro al valor militare», per la sua partecipazione alla Resistenza romana, e in particolare per l’agguato condotto dai Gruppi di Azione Patriottica garibaldini in via Rasella contro «quei poveri, bravi poliziotti nazisti», dandole della «donnaccia» e indirizzandole inequivocabili gesti osceni. Alla faccia di De Gasperi, che l’aveva proposta per la medaglia d’oro al valor militare, e di Einaudi che gliela aveva concessa.
Nostra figlia Elena si sentí spesso ripetere dai professori di scuola che suo padre e sua madre erano degli assassini; molti suoi compagni di scuola (e persino «docenti») la schernivano al motto di «mamma partigiana, mamma p……».
Episodi che hanno dimostrato a lungo non solo la volgarità e la malafede di certa gente, ma anche la vigliaccheria. D’altro canto l’attacco ai Gap garibaldini e a me in particolare, che ero stato destinato dal mio comando a un ruolo centrale in quella vicenda, fu subito scatenato qualche giorno dopo la strage delle Ardeatine, proprio dal segretario romano dei repubblichini, Pizzirani, il quale, per primo, propalò ai suoi «camerati» il miserabile falso degli avvisi nazisti che invitavano i partigiani di via Rasella a costituirsi per evitare l’illegittima ritorsione nazista.
Il partito mi ha sempre difeso in maniera totale e permanente, spesso anche in modo fastidiosamente retorico, presentandomi come un «eroe della Resistenza» (e ciò mi ha provocato sempre un profondo fastidio): non credo negli «eroi» o nei «capi», ma negli uomini che al momento giusto e nel posto giusto sappiano trovare l’indicazione della giusta via, costi quel che costi. Quello che il partito non fece, fu di confutare sempre e con efficacia le menzogne e i falsi che erano stati diffusi sugli avvenimenti di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, in particolare la leggenda metropolitana dei manifesti che tanti imbecilli ancora difendono.(…)
Mi sono sempre difeso sulla base di dati oggettivi e non ho mai avuto bisogno di nascondermi dietro il dito degli ordini ricevuti, come fanno in genere gli assassini nazisti e fascisti. E in oltre mezzo secolo non ho fatto altro che farmi carico (molto spesso da solo), di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni di cui io e i miei compagni siamo stati fatti oggetto, di difendermi e reagire sempre in ogni sede (compresi i tribunali). È una fatica di Sisifo e ogni volta mi sembra di dover ricominciare da capo.
Nel 2006 anche il noto giornalista Bruno Vespa, costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono (dopo un lungo carteggio con me e l’obbligo di correggere quanto scritto in un suo libro), ha inventato però, in una pubblicazione successiva, che i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (altro falso, e fu lo stesso Kesselring a dichiararlo); disse anche che i poliziotti in divisa nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia. Come se vestire l’uniforme di un esercito occupante non fosse un’aggravante per un italiano e come se il fatto di essere anziani in realtà l’età media dei Bozen era di trentatre anni fosse un’attenuante delle azioni criminali commesse da quei reparti. L’unica cosa che gli interessava come del resto a tutti quelli che mi hanno sempre accusato era di negare il significato dell’azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. (…)
Aggiungo di aver pagato cara la mia scelta. Via Rasella allontanò da me parenti e amici, anche se e nel cambio ci guadagnai, in numero e qualità me ne avvicinò altri. Uno dei ricordi piú struggenti è quello di mia nonna Marietta, invalida e avanti negli anni, che con il suo bastone di tartaruga se ne andava in giro per i «comizietti», durante le prime campagne elettorali, a litigare con la gente che parlava male di me.
Ciò è capitato, in tempi ormai lontani, a me e ad altri miei compagni, di incontrare gente che rifiutava di stringerci la mano, che non voleva sedersi a tavola vicino a noi al ristorante, e altre sgradevolezze del genere, cosí come di essere fermati e salutati con entusiasmo, per la strada e altrove, da sconosciuti che ci esprimevano la loro solidarietà. Ma tutto questo non ha mai avuto troppa importanza perché io mi sento orgoglioso di essere stato il piú odiato dei partigiani dai fascisti, dagli imboscati e dai vili, anche se mi sento di essere stato soltanto un soldato della Libertà e della Pace, e non mi piace la retorica che troppe volte mi ha messo francamente in imbarazzo.
(…) Recentemente qualcuno ha fatto notare che in via Rasella non c’è alcuna targa commemorativa di un fatto cosí importante nella storia moderna di Roma: una lastra, un’insegna o qualcosa che ricordi che cosa accadde il 23 marzo 1944 nella Roma occupata dai nazisti. Poco male.
Le giovani generazioni non hanno piú molto interesse per queste vicende e in qualche modo credo sia giusto cosí. Hanno la loro vita e il loro tempo davanti e non possono rimanere ancorati a vecchi miti o leggende retoriche di marca reducistica, destinati a scomparire.
Resta il fatto, però: che io a via Rasella ci sono stato perché ci volevo stare, ci sono sempre rimasto e ci sto ancora.
*partigiano
L’Unità 23.09.11
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“Autobiografia di un Partigiano” di Dino Messina
È il nome più conosciuto della Resistenza romana, perché ne fu indubbio protagonista e soprattutto perché a lui il comandante Carlo Salinari assegnò il compito rischioso di far scoppiare il 23 marzo 1944 al passaggio del Battaglione Bozen in via Rasella un carrettino pieno di tritolo che uccise 32 soldati nazisti. A quell’azione, decisa da Giorgio Amendola e dal comando delle formazioni garibaldine, parteciparono dodici partigiani dei Gap (Gruppi di azione patriottica), ma Rosario Bentivegna, classe 1922, medico del lavoro e militante del Partito comunista sino al 1985, è rimasto l’unico testimone diretto dell’episodio che determinò il giorno successivo la terribile rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, con 335 vittime selezionate soprattutto tra i prigionieri politici ed ebrei.
Via Rasella, con le polemiche, anche interne alla sinistra, durate oltre mezzo secolo, è il cuore del nuovo libro di Bentivegna, scritto con la consulenza della giovane storica Michela Ponzani (Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, Einaudi, pp. 422, 20). Il saggio tuttavia non è né una cronaca di via Rasella né una storia della Resistenza romana. È anche questo, ma è soprattutto l’autobiografia di un militante del secolo delle ideologie, che ancora oggi, nonostante il fallimento del «socialismo reale», continua a dichiararsi comunista. Un «comunista antistaliniano», ma sempre ammiratore di Luigi Longo e della «spinta propulsiva» data da Palmiro Togliatti con la «svolta di Salerno».
Anche se Bentivegna ha raccontato la sua verità già in un libro apprezzato da Renzo De Felice, Achtung Banditen, edito da Mursia nell’83 e nel 2004 in una versione aggiornata, la lettura di queste «memorie di un antifascista» è utile sia per conoscere la realtà della Resistenza, sia per seguire la formazione e il percorso anche internazionale di un militante comunista negli anni della guerra fredda. Su un fatto Bentivegna ha ragione, così come hanno stabilito una serie infinita di sentenze dei tribunali: dopo l’attentato di via Rasella, non venne affisso nessun manifesto che invitava i partigiani a consegnarsi. La rappresaglia delle Ardeatine fu decisa e realizzata in gran segreto, anche se qualcosa trapelò in Vaticano. La prima notizia della strage venne pubblicata il 25 marzo sul «Messaggero», a cose fatte. Più controversa è la questione se l’attacco al battaglione Bozen fosse necessario dal punto di vista militare, come sostiene Bentivegna, per far cessare il transito di truppe naziste a Roma e di conseguenza interrompere i bombardamenti sulla capitale da parte dell’aviazione alleata.
Grato ai generosi romani che aiutarono nella clandestinità lui e i suoi compagni, Bentivegna è rimasto alla battuta del generale nazista Kurt Maeltzer secondo cui mezza Roma nascondeva l’altra metà. Così nega l’esistenza di una «zona grigia» e considera mistificazioni le ricerche di uno storico come Aurelio Lepre, che in un pamphlet del 1996 basato sulle intercettazioni telefoniche documentava le critiche dei romani all’attacco di via Rasella. Un’azione considerata un attentato terroristico, e in quanto tale «non necessaria», se non dannosa, anche dal filosofo Norberto Bobbio che negli anni di piombo ingaggiò con Bentivegna una polemica serrata. Il partigiano «Paolo», questo il suo nome di battaglia, non ha cambiato opinione. Così sembra irrigidito su vecchi punti di vista rispetto al dialogo avviato proprio sul «Corriere della Sera» con il «ragazzo di Salò» Carlo Mazzantini dopo lo storico discorso pronunciato dal presidente della Camera Luciano Violante che invitava a «capire le ragioni dei vinti».
L’ortodossia, vorremmo dire una certa rigidità del punto di vista, non toglie tuttavia interesse all’autobiografia di Bentivegna. Nelle pagine iniziali, quando racconta la vita di un giovane borghese nella Roma fascista, nel racconto dell’avventura in Jugoslavia con la Brigata Garibaldi, quando dovette schivare le pallottole dei partigiani titini. O nella narrazione dell’impresa compiuta alla fine degli anni Sessanta alla guida di un motoscafo d’altura per mettere in salvo i dirigenti del Partito comunista greco, perseguitati dai colonnelli.
Il Corriere della Sera 24.09.11