attualità, politica italiana

"Ricostruire l'Italia", di Rinaldo Gianola

C’è un Paese da ricostruire quando finirà, speriamo al più presto, l’oscura stagione del governo Berlusconi. Nella settimana che ha visto il declassamento dell’Italia mentre il centrodestra era impegnato a salvare Marco Milanese e a rettificare le telefonate hard del premier, si sono mosse decisamente le forze sociali più responsabili, i sindacati e le imprese, che vogliono voltare pagina. L’appello lanciato ieri da Emma Marcegaglia per salvare il Paese segna forse il definitivo distacco degli industriali dal governo, la fine di un anacronistico collateralismo, di un’illusione troppo a lungo coltivata e, nel segno di una tanto attesa discontinuità, accelera il confronto con il mondo del lavoro e con la politica responsabile per avviare una nuova fase, di risanamento e di crescita. Ormai da diversi giorni il presidente di Confindustria usa parole dure e inequivocabili per condannare l’inutile azione del governo e la mancanza di un credibile progetto riformatore, di sviluppo, di rinascita nazionale. Emma Marcegaglia non si è svegliata di cattivo umore un mattino e ha deciso di andare allo scontro con la maggioranza. Semplicemente ha raccolto e rappresentato pubblicamente il disagio, la delusione e anche la rabbia degli imprenditori che, nelle riunioni riservate delle associazioni territoriali di Confindustria, si sono espressi in termini brutali per criticare l’azione del governo e le vicende personali di Berlusconi. Gli industriali italiani sono ridicolizzati all’estero per le performance del premier, dal bunga bunga, dall’interminabile serie di processi e ora non ne possono più. Come si fa a vendere, a proporre il made in Italy, a cercare alleanze, a sviluppare tecnologie, a investire quando i giornali di tutto il mondo ci prendono in giro, ci chiedono fino a quando siamo disposti a sopportare questa vergogna? E oggi l’allarme non consente rinvii perchè l’aumento del rischio Italia, la dinamica del differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, le tensioni di liquidità, le difficoltà crescenti delle imprese a finanziarsi segnalano che la linea rossa è già stata superata. Il “Manifesto” annunciato da Confindustria sarà, dunque, il contributo delle imprese per cambiare le priorità dell’agenda politica e avviare il salvataggio e il rilancio del Paese. L’esigenza di un radicale cambio di passo e di scenario politico è condivisa dagli imprenditori e dai sindacati e non è casuale che l’ultima offensiva di Confindustria segua di pochi giorni la firma definitiva con Cgil, Cisl e Uil del patto del 28 giugno. Questo accordo neutralizza l’infida minaccia dell’articolo 8, che apriva la strada alla deroga per i licenziamenti, contenuto nella manovra e segna una chiara sconfitta dei falchi del governo in particolare il ministro Sacconi che, anche ieri, ha tentato di aprire un nuovo capitolo di tensioni tra le parti sociali, buttando sul tavolo un’ipotesi di riforma delle pensioni. Questo è il momento della collaborazione, delle riforme radicali ma condivise, della ricerca di nuove, credibili leadership politiche. Nessuno, nemmeno gli industriali, può pensare che si può uscire da questa emergenza con operazioni di rottura sociale, o con l’imposizione di ricette traumatiche, stile Grecia, solo per alcuni ceti sociali. Il Paese è stremato, indebolito, sfiduciato. Viene da quasi quattro anni di crisi, di licenziamenti e di cassa integrazione, di redditi tagliati e di prospettive incerte. Il Pil è fermo, un giovane su tre è disoccupato, oltre 2 milioni di giovani non studiano, non lavorano, sono esclusi da tutto. Questa è la situazione. La tenuta del tessuto sociale è decisiva per uscire dalla crisi e in questo sono determinanti i corpi intermedi di rappresentanza, come i sindacati. Lo sciopero generale della Cgil, del 6 settembre scorso, ha rappresentato un punto di svolta, ha coinvolto milioni di lavoratori, pensionati, cittadini ed è stato condiviso, nonostante le polemiche, anche da chi non è abituato a scendere in piazza. Se in questa settimana le parti sociali hanno siglato il patto del 28 giugno, se Confindustria ha divorziato dalla maggioranza, è anche perchè lo sciopero generale ha rappresentato democraticamente la protesta di tanti italiani che non ce la fanno, non ne possono più del governo. Da qui si può partire per risalire la china, da un fronte comune tra imprese e lavoro.❖

L’Unità 24.09.11

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Le imprese contro il governo”, di Wladimiro Fruletti

«Muore lentamente chi non capovolge il tavolo». La presidente degli industriali della Toscana, Antonella Mansi, cita la giornalista brasiliana Marta Medeiros davanti alla platea dei suoi associati riunita a Firenze. E quel tavolo, per la sua presidente nazionale, sta a Palazzo Chigi. «Vogliamo una vera discontinuità » spiega Emma Marcegaglia concludendo la convention e annunciando un manifesto di tutte le imprese «per salvare l’Italia». L’avviso al governo è chiaro: o cambia o meglio chiudere qui. «Non siamo disponibili – dice Marcegaglia – a veder continuare questa situazione di stallo, ci stiamo giocando il Paese ». Di certo i bonus sono esauriti perché l’avvertimento della leader di Viale dell’Astronomia arriva su esplicito mandato della giunta di Confindustria. «Se il governo è disponibile a parlare con noi e le associazioni di impresa di queste grandi riforme siamo disponibili. Se il governo vuole andare avanti su piccole cosette di manutenzione, noi scindiamo le nostre responsabilità perché vogliamo un cambiamento vero. È inutile perdere tempo». Anche perché di tempo non ce n’è più. La credibilità scarsa, se non assente oramai, di Berlusconi ci sta costando molto cara. «O riusciamo a uscire da questa scarsa credibilità – avverte – o si crea un problema enorme, dobbiamo agire, fare in fretta». E Marcegaglia cita ancora una volta la Spagna, dove il premier Zapatero ha deciso di andarsene prima della scadenza. «Il nostro spread – fa notare – è stabilmente più alto di 40 punti rispetto ai titoli spagnoli» nonostante il nostro sistema manifatturiero e anche bancario sia notevolmente messo meglio. E invece questa differenza (che con la Germania è ancora più marcata) significa non solo che il debito pubblico ci costa più caro, ma che il denaro viene pagato di più anche dalle banche italiane e quindi alle imprese che chiedono un prestito. «Se mi vendono una mozzarella a 10 la posso dare a 12, ma se me la fanno pagare50 devo per forza rivenderla a 52» esemplifica il presidente di Abi Giuseppe Mussari anche lui presente (non a caso) all’assise degli industriali toscani. Insomma il rischio che tutto crolli è alto. E infatti questo appello «a salvare l’Italia» degli industriali trova riscontri anche nel sindacato. Dal segretario della Uil Luigi Angeletti a quello della Ugl Giovanni Centrella.
IL FRONTE E la leader Cgil Susanna Camusso parla di possibile «fronte comune» anche se, ammette, le ricette sono diverse a partire dalle pensioni. Per il segretario Cgil non è quella la strada giusta, ma ricorda come «le parti sociali hanno detto già a luglio che ci voleva discontinuità e che le politiche del governo non erano utili al Paese». Sollecitazioni però cadute nel vuoto «perché le manovre che si susseguono – fa notare Camusso – non guardano alle prospettive e al futuro del Paese». Considerazione che coltiva anche la leader degli industriali che giudica le manovre sì necessarie, ma «fatte male» perché aumentano a dismisura la pressione fiscale, non toccano i costi della politica e non c’è nulla per la crescita. Le richieste di Confindustria Marcegaglia le riassume in 5 punti. La riduzione della spesa pubblica («ma non con i tagli lineari alla Tremonti ») riformando le pensioni e usando una parte dei soldi risparmiati per «tagliare il cuneo contributivo e fiscale a favore dei giovani». La vendita di unpo’di beni pubblici, dagli immobili alle società di servizi pubblici locali «per abbassare il deficit e diminuire l’ingerenza del pubblico». La liberalizzazione delle professioni e dei mercati protetti. Un serio piano per le infrastrutture che levi «i vincoli burocratici e di testa» che bloccano anche investimenti già stanziati. E infine una vera riforma fiscale che abbassi le tasse sul lavoro e sulle imprese anche a costo di alzarle su «tutto il resto» compresa Iva, anche una «piccola patrimoniale». Perché per Marcegaglia ogni imprenditore sarebbe disposto a pagare di più sui suoi beni privati a patto di avere meno pressione fiscale sulla propria impresa. Questo il contenuto del manifesto. Da vedere se dall’altra parte del tavolo ci sarà qualcuno interessato. Altrimenti meglio rovesciarlo.

L’Unità 24.09.11