“Il comunismo non passerà!”. L´aria giuliva di Fabrizio Cicchitto, in mezzo a un gruppo di parlamentari della maggioranza in festa per il salvataggio di Milanese dall´arresto, del governo e della poltrona, magari non in quest´ordine, è il ritratto di una classe dirigente fuori dal mondo. Brindano alla buvette, s´abbracciano come a una vittoria del mundial. Berlusconi accarezza Bossi e poi Maroni, manco fossero le sue bambine. Lo spread volato a 400 punti? La Borsa che ha bruciato 100 miliardi in tre mesi? Il debito pubblico fuori controllo? Il rischio di un´asta dei Bot deserta? E chi se ne frega. Il declassamento da parte delle agenzie di rating? Domenico Scilipoti, che è il simbolo di questa maggioranza di governo a tempo perso, nemmeno lo sa che cos´è Standard & Poor´s e lo confessa ai microfoni Rai. “Mai sentiti. Me lo spieghi lei” dice al giornalista basito. Forse è un telefilm, come Starsky & Hutch.
Massì, chi se ne frega della crisi. Che non c´era, anche quando c´era, ma qui in ogni caso non è mai arrivata. Vivono tutti felici e contenti, blindati nel privilegio, nella speranza di durare più a lungo possibile, almeno fino al 2013. “Tanto i numeri ci sono”. Trecentoquattordici voti, fatta la tara di qualche collega tradito da un sussulto di dignità, risultano comunque sette più degli altri e tre più del necessario. Sono questi i numeri. Gli altri, i disoccupati in aumento, i risparmi dileguati, le stime di (non) crescita, qui non contano. Non da ieri, certo. Il debito pubblico italiano nel 2001 era 1300 miliardi, oggi ha superato i 1900. Con la parentesi dei venti mesi di Prodi, che aveva posto qualche timido freno, il debito sotto Berlusconi è cresciuto di un terzo, quasi 600 miliardi. Un record da far impallidire il mentore Craxi. E meno male che c´era quasi sempre Tremonti a “tenere in ordine i conti”, come si è detto perfino dall´opposizione. A dar retta ai magistrati, pare invece che non tenesse in ordine nemmeno quelli con il braccio destro Milanese.
Il Quintino Sella de´ noantri, che pensa o s´illude di avere un futuro oltre il berlusconismo, non si è presentato al voto, per salvare la faccia. Ma gli altri, consapevoli di doversi trovare un lavoro vero quando il festino sarà finito, c´erano tutti. A cominciare da Bossi, il più patetico. C´è chi servo nasce e per tutta la vita cerca un padrone. Ma l´Umberto ridotto a giustificare davanti alla base il suo esser diventato il maggiordomo di Arcore, evocando il sol dell´avvenire della Padania libera e della secessione, tutto per assicurare un avvenire al Trota, sinceramente stringe il cuore. Berlusconi lo tratta come se fosse l´altro il vecchio e lui si vanta d´essergli fedele. “Se mancano voti, non sono della Lega” si precipita a commentare Bossi, di fronte alla lieve delusione del Cavaliere. Ed è una delle poche volte in cui dice il vero. I leghisti ci sono tutti, compresi quelli di Maroni, che avevano mandato in galera Papa soltanto per poi sedersi al tavolo delle trattative. Indifferenti all´indignazione che monta fra gli stessi loro elettori.
Ma che importa? Lo show deve andare avanti. Il governo più sputtanato dall´opinione pubblica mondiale tira a campare ancora qualche mese, forse un anno intero. Nel frattempo matura la pensione delle onorevoli anime morte, marciscono i processi nella prescrizione, il Paese perde anche l´ultimo treno, ma senza accorgersene, soprattutto se s´informa dai telegiornali. C´era chi voleva trasformare il Parlamento in un´aula sorda e grigia col manganello e chi l´ha fatto col libretto degli assegni in mano. Speriamo soltanto che anche Standard & Poor´s non sappia chi è Scilipoti.
La Repubblica 23.09.11