L´annus horribilis continua inesorabile: e monotono in casa berlusconiana. La manovra imposta dall´Ue (quarta versione) riscuoteva segnali positivi dal mercato, mercoledì 7 settembre, sebbene vi manchino novità strutturali, ma niente garantisce che siamo fuori della tempesta: l´Italia è la più debole tra i soci importanti, malata contagiosa, da tenere d´occhio; nelle previsioni d´una stentata crescita viene ultima, col miserrimo 0.50%. Era disceso dalle nuvole, soi-disant imprenditore geniale: qualunque cosa tocchi, diventa oro; e s´impegna al miracolo economico, firmando il contratto nel salotto televisivo; sono il suo forte le pantomime da fiera.
Corre l´undicesimo anno dell´era berlusconiana, meno i due d´uno spettrale intervallo centrosinistro: le Camere gli ubbidivano (mai viste maggioranze simili); gli avversari stavano a testa china, cappello in mano. Ogni tanto brandiva l´arma plebiscitaria, sicuro d´avere due elettori su tre dalla sua. Il collasso sbalordisce e non incolpi stelle nefaste o prose nemiche. Se lo combina da solo, disincantando le platee: inetto, ciarlatano, abile solo nell´arricchirsi, enorme parassita, spende il tempo politico in frodi legislative intese all´impunità; le finanze vanno a picco e lui manda una lettera autografa alla Camera affinchè vieti l´uso del materiale fonico sulle serate postribolari d´Arcore (bel delirio d´onnipotenza, in spregio alla procedura penale). Nella terribile crisi planetaria non muoveva dito, intento ai loschi affari suoi. Costituito in mora dall´Ue, giocava carte false.
Almeno non strepitasse vantandosi salvatore del Paese contro toghe rosse e mercati, mentre indagini svelate dalla sua stampa aprono scenari dove figura molto male, sotto possibile ricatto da chi gli portava demoiselles a pagamento: nega d´essere parte lesa e racconta d´avere soccorso dei bisognosi (pratica una carità molto particolare, verso lenoni, traviate rampanti, malaffaristi), senza sospettare l´effetto ilare nel pubblico; è una campana sorda in materia autocritica. Varie voci lo qualificano falso testimone: stavolta non rischia condanne perché nemo tenetur turpitudinem suam detegere; ammettendo d´essere ricattabile patirebbe nell´onore (art. 384 c. p.), ammesso che quest´eterea entità gli prema; mille volte l´abbiamo visto insensibile alla vergogna, germe dell´etica. Ai bei tempi spacciava favole sguaiate trovando larga audience: adesso fredde occhiate misurano parole, smorfie, maschere, gesti; mala tempora, gli converrebbe stare quatto. Intanto qualcosa sta muovendosi nel clero Pdl. Mercoledì 7 settembre l´autorevole ex ministro Beppe Pisanu (tra i fondatori del partito-chiesa) gli consigliava d´uscire in punta di piedi: ancora poche settimane fa sarebbe stato impensabile; e i molossi contraddicono a mezza voce, notando come manchino i presupposti del governo a larghe intese; sfiduciato o dimesso B., andiamo al voto. Tutto lì: persistendo l´antica fedeltà (pro tempore, beninteso; nessuno arrischia un capello nel servizio disinteressato), il traditore finirebbe alla gogna; invece ne parlano signorilmente. Sintomo infausto.
Lui non vuol andarsene, ovvio: le dimissioni ripugnano all´Ego tirannico; sarebbe catastrofe psichica nonché politica, irrimediabile, non essendo presumibile la seconda vita d´un perdente prossimo agli ottanta più che ai settanta; non parliamo delle ripercussioni nel fiabesco patrimonio; e i maledetti processi? S´era giocato tutto, quasi una roulette russa. Fallisce l´assurdo tentativo del decreto urgente che lo salvi dai dialoghi intercettati (14 settembre). Gli sgherri meno presentabili, senza futuro fuori del serraglio, chiedono decisioni estreme, sbarrano gli occhi, battono pugni sul tavolo, urlano ma è schiuma da poco. I cauti scoprono lembi d´anima finalmente moderata, nella logica del salvare il salvabile.
Ormai basta una spinta. Supponiamo che lo spread con i titoli tedeschi resti agli allarmanti livelli attuali o addirittura salga, nonostante l´onerosa manovra, mentre Berlusco illo tempore felix, in fuga dai pubblici ministeri, affonda tra scandali e affari penali; il senso sarebbe chiaro: l´Italia rimane sotto tiro finché sia identificabile nel malfamato. A quel punto le Camere voteranno: merita ancora fiducia?; e presumiamo vari giudiziosi «no» nelle sue file. Troppe cose sono cambiate dall´Avvento 2010, quando pochi voti venali gli evitavano una débâcle, ma concessa l´improbabile risposta positiva, la legislatura ha le settimane contate; tempi calamitosi richiedono governi seri. Sul responso elettorale esistono pochi dubbi. È peso morto l´allora invincibile agonista e nell´attuale partito tirano arie discordi: era compagnia di ventura nel culto del padrone; caduto o svilito il quale, ai postberlusconiani resta la via della destra senza collare delineata dai futuristi. Sull´altra sponda anche i sinora interessati alla mistica del Capo sanno che handicap sia trascinarselo logoro, perdente, ormai molesto. L´ideale sarebbe un partito del «Caro Estinto», fabulous man, con tutti gli assets (reti televisive, giornali, editoria, capitali), sotto la guida della bellicosa figliola, i cui carismi cantava uno che s´è votato alla Casa d´Arcore, sotto cimiero, barbuta, cotta, relatore dell´insigne ddl sul processo cosiddetto breve. Quest´Ordine dei credenti, che ubbidiscono e combattono, batte bandiera Mediaset. Vi figurano colonnelli post-Msi, l´onniloquo capogruppo veterano piduista, lo speaker già radicale, il ministro socialcattolico, declamatore gesticolante dell´historiette osée su cinquanta monache violate, meno l´unica riluttante, e quanti messeri.
Speculavamo su dei futuribili. Lo scherzo prognostico è anche augurio. Chiudiamolo nello stile lieve d´Esopo, Fedro, La Fontaine, Leopardi fabulante (non Orwell: nel finale tragico d´Animal Farm niente distingue più i maiali dall´uomo). La rana s´era gonfiata a dismisura: gli animali l´adoravano, finché cade il velo; vedono quanto sia brutta e lì svanisce la batracomonarchia. Provvedano le Parche, se hanno a cuore le sorti d´Italia.
La Repubblica 23.09.11
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“Il governo regge l’Italia no”, di MARCELLO SORGI
La notizia del giorno è che il governo regge, seppure a malapena, ma il Paese non regge più. Basta solo confrontare, ancora una volta, ciò che ieri accadeva dentro e fuori il Palazzo, per capire fino a che punto è arrivato lo scollamento.
La Camera, per soli sei voti, e con un complicato intreccio di franchi tiratori, ha evitato l’arresto a uno dei deputati più impresentabili: quel Milanese, già braccio destro di Tremonti, che passava la vita a lucrare, grazie al suo incarico, su favori grandi e piccoli, si faceva regalare barche e auto di lusso, nonché la casa alle spalle di Montecitorio che aveva riservato al suo principale. Inoltre, sull’assenza del responsabile dell’Economia (in missione a Washington al Fondo monetario internazionale), a una votazione che lo riguardava così da vicino, è nato subito un caso: Berlusconi lo ha definito «ministro immorale», parlandone come di un disertore. Ma se c’era un problema di moralità, come mai il governo ha preteso di evitare l’arresto proprio a chi era accusato di averla violata?
E questa non è stata l’unica incongruenza della giornata. Mentre si votava a Montecitorio, la Borsa di Milano precipitava, anche a causa del declassamento di sette importanti banche italiane da parte di Standard & Poor’s, finendo come fanalino di coda dei mercati in sofferenza. Lo spread tra i titoli di Stato e quelli tedeschi nuovamente superava l’allarmante quota dei quattrocento punti. E nelle stesse ore il governo, rivedendo stime precedenti, fissava le previsioni di crescita dell’Italia per i prossimi tre anni sempre al di sotto di un punto percentuale, tra 0,6 e 0,9.
Ma di tutto ciò Berlusconi non sembrava particolarmente turbato: i suoi unici motivi di rammarico restavano Tremonti (anche se il ministro era a Washington a difendere la credibilità dell’Italia), e quei maledetti «soli» sei voti di scarto che gli avevano abbassato la media delle ultime performances parlamentari. D’altra parte, un esempio del metro di misura con cui il presidente del Consiglio valuta la gravità della situazione s’era avuto proprio qualche giorno fa, in occasione del down-grade del debito dell’Italia, quando il Cavaliere aveva accusato, ricevendone una replica secca e circostanziata, la stessa Standard & Poor’s di aver agito per ragioni politiche ed essersi basata solo sulla lettura dei giornali.
L’approssimazione e la superficialità con cui il premier continua a rapportarsi ai drammatici sviluppi della crisi sono inspiegabili, in un uomo che ha un passato da imprenditore e dovrebbe conoscere i fondamentali dell’economia nazionale. Ma tant’è. Se le banche italiane sono in difficoltà e cominciano a chiudere i rubinetti del credito, come ormai lamentano gran parte delle imprese, grandi, medie e piccole, e se la Confindustria lancia un allarme dopo l’altro, spiegando che la situazione non è più sostenibile, la risposta del governo non può essere che l’economia non c’entra e si tratta di un attacco politico mirato a far fuori il presidente del Consiglio. E neppure che è pronto un piano per rimettere tutto a posto. Piuttosto
che il piano, dopo quattro o cinque manovre insufficienti negli ultimi mesi, occorrono scelte immediate e precise, tre o quattro cose, non lunghi e inutili elenchi: tagli decisi, non il maquillage praticato finora, alla spesa pubblica e a quella per le pensioni; un altro pezzo importante di patrimonio nazionale messo in vendita per rianimare i mercati; semplificazioni e leggi innovative per attirare gli investimenti.
Ma al contrario, il timore è che il governo venga fuori con un altro libro dei sogni, grandi riforme costituzionali per le quali non c’è più tempo, alla fine della legislatura, lavori pubblici e infrastrutture che partono, o ripartono, sulla carta, mentre cresce il numero dei disoccupati. L’altro rischio concreto è che il Parlamento sia di nuovo ingorgato da leggi ad personam, invocate per aprire uno squarcio nella rete dei processi in cui il Cavaliere è imputato: questa sì, l’unica sua vera preoccupazione, che da mesi lo assorbe completamente e gli impedisce di dedicarsi ad altro.
Berlusconi ripete tutti i giorni che resisterà fino all’ultimo. Finché lo sostiene una maggioranza, per quanto malconcia, è suo diritto. Ma se vuol restare a Palazzo Chigi a qualsiasi costo, è suo dovere decidersi a governare.
La Stampa 23.09.11