Il verdetto di un´agenzia di rating non vale come un voto di sfiducia del Parlamento. Dunque non sarebbe giusto se il downgrading di un debito sovrano fosse di per sé sufficiente a far cadere un governo. Ma la «retrocessione» decretata da Standard & Poor´s nei confronti del nostro Paese non si presta ad equivoci. La bocciatura inflitta dei «signori del rating» certifica quanto purtroppo è già noto, e quanto le cancellerie, le istituzioni europee e i mercati finanziari decretano ormai quasi ogni giorno. L´Italia di non ha più un governo nel pieno delle sue funzioni. La sua maggioranza politica è fragile, le sue manovre economiche insufficienti. E tutto questo pesa in modo determinante sul futuro della nazione, che difficilmente potrà risanare i conti pubblici e far ripartire la crescita economica.
È accaduto quello che si temeva da giorni. L´unica differenza è il nome dell´agenzia. Tutti aspettavano la batosta di Moody´s. E invece è arrivata quella di S&P, che ha giocato d´anticipo. La sostanza non cambia. Il caso Italia è ormai esploso, ed è deflagrato anche in campo internazionale. Non deve ingannare la reazione delle Borse (cresciute per il solito rimbalzo tecnico dopo una lunga serie di ribassi), né quella dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi (contenuto intorno a quota 380 punti grazie alla rete di protezione attivata della Bce). Questo downgrading colpisce il «Sistema Italia», sia nell´Eurozona che nel resto del mondo. Ed è inevitabile che sia così. Non possiamo certo gioirne, ma dobbiamo ammettere che ce lo siamo meritato. Paghiamo quella che Tito Boeri ha definito la «Papi tax». Il «costo» della permanenza a Palazzo Chigi di un presidente del Consiglio che ormai nuoce al suo Paese per il solo fatto di restare al suo posto. Se togliesse il disturbo, farebbe calare in un colpo solo di 50, 100 o secondo alcuni analisti anche di 200 punti il «rischio Italia» sui Btp o sui Cds.
Le agenzie di rating non sono l´oracolo di Delfi. Negli ultimi tre anni, dal crac di Lehman Brothers in poi, godono di una fama discutibile. Persino Obama, insieme alla business community iper-liberista d´America, le ha criticate più volte. Ma nel caso italiano non si può dargli torto. Quando S&P scandisce nel suo rapporto che il declassamento del rating italiano «riflette la nostra visione di prospettive di crescita indebolita» che «probabilmente limiterà l´efficacia del programma di consolidamento del bilancio», non fa altro che mettere nero su bianco quello che Bankitalia, parti sociali, opposizioni, economisti e istituzioni «terze» ripetono da mesi. Quando aggiunge che «la fragile coalizione di governo e le differenze politiche all´interno del Parlamento continueranno probabilmente a limitare la capacità dell´esecutivo di rispondere con decisione a un contesto macro-economico interno ed esterno difficile», non fa altro che mettere per iscritto quanto gli italiani toccano con mano ogni giorno. Compresa la giornata di ieri, che ha visto lo sparuto e disperato drappello della maggioranza forzaleghista andare sotto alla Camera per ben cinque volte.
Quello che allarma di più è la prospettiva di medio periodo. L´outlook è negativo perché questo governo non ha la forza né la voglia di imprimere la svolta che serve. E se mai ve ne fosse bisogno (al di là delle rassicurazioni di rito che arrivano dai portavoce della Commissione europea preoccupati dall´effetto-domino sulla moneta unica) ci sono le previsioni appena aggiornate dal Fondo Monetario Internazionale. L´Italia crescerà dello 0,7% quest´anno e dello 0,3% nel 2012. In altre parole, siamo alla crescita zero, pratica e non più solo simbolica. In questo scenario, immaginare che le manovre appena varate siano sufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013 è una pia illusione anche per gli esperti di Washington.
Di fronte a tutto questo, la reazione del miserevole Palazzo romano preoccupa e indigna. Preoccupa la risposta del ministro dell´Economia, sempre più nascosto dietro al suo misterioso «cespuglio», in attesa dell´ordalia di domani con la quale il Parlamento dovrà decidere sull´arresto del suo collaboratore Marco Milanese: «i mercati avevano già scontato la decisione di S&P», pare abbia detto Giulio Tremonti, lamentandosi con i suoi interlocutori perché «non ci si deve far dettare la linea» e perché «i tempi degli Stati non sono i tempi dei comunicati stampa». Al di là del tono, come al solito a metà strada tra il Qoelet biblico e il pamphlet filosofico, resta da capire se c´è ed eventualmente qual è «il tempo» dello Stato italiano. E cos´ha fatto il ministro in questi tre anni e mezzo, per completare la riforma delle pensioni, riformare il mercato del lavoro, sostenere ricerca e sviluppo, liberalizzare ordini e professioni, privatizzare il patrimonio pubblico. Due settimane fa, a Marsiglia, aveva annunciato che la settimana dopo il governo avrebbe lanciato il «tagliando per la crescita». Lo stiamo ancora aspettando.
Indigna la replica di Berlusconi, che come al solito grida al complotto: «è colpa della stampa», dice il presidente del Consiglio, innescando l´immediata replica dell´agenzia «incriminata». È ormai un riflesso patetico e condizionato, quello del Cavaliere: qualunque sia il giudizio che lo riguarda (pubblico o privato, penale o personale) la responsabilità non è mai sua, premier «a tempo perso». O sono i soliti giornali in mano alla sinistra, come sbraita a casaccio davanti alle telecamere del suo addomesticato duopolio televisivo, oppure addirittura i «circoli mediatico-finanziari anglofoni», come ha avuto l´impudenza di scrivere nella lettera al «Foglio» di sabato scorso. In attesa di un invisibile Dino Grandi dentro un impresentabile Pdl, siamo tornati al «non mollo» e alla «Perfida Albione». Cioè alla farsa italiana. Se non fosse che invece quella che si sta consumando, per nostra sfortuna, rischia di diventare una mezza tragedia.
Avanti così, e l´Italia affonda. Lo ha capito l´establishment nazionale, con Emma Marcegaglia che per la prima volta dice in esplicito «o fa le riforme, o il governo va a casa». Lo ha capito la stampa mondiale, con la «Bild» che scrive «il Bunga bunga ci tira giù tutti». Gli unici a non averlo capito, oltre all´irriducibile Cavaliere, sono i suoi luogotenenti e i suoi alleati, asserragliati nel «Gran Consiglio» trasformato in una trincea. Anche loro, ormai, sono uno «scandalo permanente».
La Repubblica 21.09.11