Le discipline umanistiche e sociali si nutrono di tradizioni nazionali. Per non limitare libertà e pluralismo servirebbero maggiori incentivi alla traduzione. Come si valutano i lavori universitari? I nuovi criteri varati dal governo privilegiano gli altri idiomi con il rischio di creare un impoverimento. Né la scienza né la politica sono “neutre”: il sapere e il potere si influenzano a vicenda in lotte, e in alleanze, che assumono forme sempre nuove nei diversi contesti storici e sociali. Alla censura (metodo efficace ma primitivo) alla gestione “mirata” degli investimenti finanziari (sempre valido), si aggiunge oggi la “valutazione” della ricerca, attraverso la quale il potere politico misura quantità e qualità del lavoro svolto dagli studiosi con pubblico denaro. Nulla da eccepire, quindi, in linea di principio; per questa via si colpiscono abusi, e si incentivano i migliori.
Ma poiché la ricerca scientifica ha molto a che fare con la libertà, degli studiosi e dell´intera società, la sua valutazione è faccenda delicatissima. Si tratta di valutare senza interferire né distorcere: impresa non facile, come dimostra il nuovo dibattito che si è aperto al riguardo nell´Università italiana. In realtà, il dibattito non è nuovo: da molti anni, infatti, la ricerca viene valutata; nuovo è che lo faccia un´Agenzia di nomina ministeriale – l´Anvur: un organo in cui i saperi umanistici, sociali, politici, giuridici sono sottorappresentati –. E quindi nuovo è anche l´interesse che metodi e criteri della valutazione – finora annunciati, ma tra breve operativi – stanno suscitando sia in ambito accademico sia presso le case editrici di cultura.
Il problema centrale è, a questo punto, che i valutatori si dotino di strumenti raffinati e sensibili, davvero adatti a misurare la ricerca: e ciò non sarà facile. Molta attenzione ha già avuto, invece, da parte dell´Anvur, la questione della internazionalizzazione della ricerca, obiettivo è in sé condivisibile, ma che è stato perseguito dall´Anvur con una gaffe iniziale. Infatti, dapprima si sono privilegiate le opere pubblicate da editori stranieri; e solo dopo parecchie proteste si è ripiegato sull´accordare preferenza a quelle scritte in lingua diversa dall´italiano (anche se pubblicate da editori italiani, quindi). Un passo avanti, per non penalizzare i nostri editori nazionali di tradizione scientifica e di prestigio intellettuale consolidato.
Ma poiché da molto tempo non è più possibile dare per scontata la conoscenza della lingua italiana da parte di un medio intellettuale occidentale, l´obiettivo di fare conoscere la ricerca italiana all´estero non è privo di una sua legittimità. A questo punto, però, si deve riconoscere che non ha senso invitare a pubblicare genericamente in “lingua straniera”. Esiste una lingua della comunicazione scientifica internazionale, l´inglese – dal ruolo analogo a quello del latino, fino al XVII secolo –, la cui conoscenza è presupponibile in uno studioso di oggi; una lingua che può avere senso privilegiare nella valutazione della ricerca.
Sia chiaro: non ogni disciplina scientifica può costituire un´unica comunità internazionale, com´è il caso dei fisici; anzi, in molti ambiti umanistici le comunità scientifiche traggono senso – mezzi espressivi, temi di ricerca, inflessioni argomentative – proprio dal nutrirsi di una tradizione e di una lingua nazionale; e il mondo scientifico anglofono, benché vastissimo e potentissimo, non fa eccezione, e ha le medesime connotazioni “locali” di altre tradizioni di ricerca. Per il ricercatore, pubblicare in contesti che chiedono l´adeguazione a uno stile di lavoro, a scelte tematiche, a forme argomentative, che possono essergli estranee, è una limitazione di fatto della sua libertà, e in prospettiva dello stesso pluralismo delle espressioni del sapere. In questi casi, la vera internazionalizzazione della ricerca sarebbe la traduzione in lingua straniera di opere scritte in italiano; evento non molto frequente, ma che potrebbe esserlo, se gli incentivi pubblici alla traduzione di opere italiane fossero più rilevanti.
Nondimeno, può avere senso che lo Stato, in sede di valutazione, renda più vantaggioso per gli studiosi pubblicare in inglese (anche presso editori nazionali). Certo, vi è, qui, per il ricercatore una fatica aggiuntiva – scrivere in inglese –, ma la distorsione della ricerca e della sua libertà è meno grave di quella che nascerebbe dall´obbligo di pubblicare in sedi estere.
C´è però un´altra conseguenza di questa strategia: il sapere scientifico si isolerà ancora di più dal contesto sociale e culturale in cui opera; diventerà sempre più “specialismo”, rivolto, anche linguisticamente, soltanto ad altri specialisti. Il nesso moderno fra scienza e società, fra sapere e cittadini, garantito dallo Stato nazionale (certo, non per finalità disinteressate, ma con esiti dopo tutto progressivi), si allenterà ulteriormente. E ciò avverrà anche in quegli ambiti di studio – umanistici e sociali – in cui ha più senso e più valore che il sapere circoli in uno spazio condiviso non solo dagli addetti ai lavori (si pensi al mondo della scuola). Un rischio d´impoverimento del tessuto culturale e civile esiste, se la ricerca non parlerà più le lingue nazionali (o se le parlerà molto meno).
Fra i problemi aperti dal nuovo scenario della valutazione non c´è quindi solo quello, immediato, che gli studiosi sono oggetto e non soggetto del processo valutativo, come un corpo collettivo da disciplinare dall´alto – la storica debolezza dell´Università italiana –; c´è anche il problema, di lungo periodo, che l´internazionalizzazione della ricerca, che al senso comune sembra soltanto un bene, possa invece implicare anche conseguenze negative. Ovvero, che la società nel suo complesso possa essere resa meno colta da un processo che è riconducibile alla globalizzazione e alle sue contraddizioni. Difficili da contrastare, certo; ma senz´altro da indicare come oggetto di pubblica riflessione.
La Repubblica 20.09.11