Un volume per tesi, che attraverso l’analisi delle quattro stagioni attraversate dalla scuola italiana dal 1960 ad oggi punta a dimostrare che un patto per rifondarla e rilanciarla, tra le forze politiche oggi all’opposizione è possibile quanto necessario. E’ questo il fulcro dell’ultima pubblicazione del docente e pedagogista Franco Frabboni, “Una scuola condivisa” (Liguori Edizioni), presentato alla Festa Democratica Nazionale della Scuola a Modena. Ne hanno discusso, insieme all’autore, Adriana Querzè, assessore all’Istruzione di Modena, e Adriana Comaschi, giornalista de L’Unità. Al termine della presentazione, Frabboni ha accettato di rispondere alle nostre domande.
Professor Frabboni, quali sono state le stagioni della scuola pubblica italiana che lei descrive nel suo ultimo libro?
Le due stagioni “luminose”, la primavera e l’estate, corrispondono al periodo tra il 1960 e il 2000. La primavera è la stagione dei grandi pedagogisti, laici e cattolici, che insieme hanno saputo dare un’impostazione inclusiva e volta all’emancipazione degli individui alla nostra scuola. L’estate arriva con l’affermazione del tempo pieno e prolungato, che porta nel 2000 la nostra scuola primaria ad essere considerata la migliore in Europa, copiata e studiata nel resto del mondo. Ma il 2000 è anche l’anno del documento di Lisbona, che lancia gli obiettivi per la società della conoscenza. L’autunno comincia con l’arrivo della Moratti e si trasforma in inverno con la Gelmini, che ha ribaltato i pilastri su cui si fondava la nostra scuola: da democratica a meritocratica, da inclusiva a separatista, dal pensiero critico e plurale all’infanzia imbalsamata, dalla solidarietà alla competizione. Un periodo buio in cui scivoliamo nelle classifiche europee fino all’attuale 13mo posto, frutto anche di un ulteriore imbarbarimento della classe politica di governo.
Il fatto che lei indichi come primavera ed estate due stagioni ormai lontane, significa che la scuola condivisa va costruita guardando al passato?
No, naturalmente non è possibile una semplice riproposizione del passato. Ma occorre una condivisione nelle grandi finalità. La scuola di quegli anni poggiava su di una cultura pedagogica cattolica e laica insieme, che teneva uniti alcuni valori e alcuni obiettivi di fondo. Oggi questi pilastri stanno nella difesa della scuola pubblica, che non significa cancellare la parità scolastica, ma riformarne i criteri per tutelare la qualità; nella scuola laica, che non è contrapposta al pensiero cattolico, ma tutela anzi il pensiero plurale; nell’apprendimento permanente, per tutto l’arco della vita. Questa è una grande esigenza attuale, perché altrimenti l’analfabetismo di ritorno diventa un dramma. La fruizione dei media, dalla TV ai computer, deve poggiare su basi cognitive che restano nel corso della vita, bisogna puntare sulle “intelligenze multiple” di Gardner. L’apprendimento degli adulti e della terza età ha effetti positivi sulla produttività del lavoro e sulla salute degli anziani, con ricadute positive per l’intera società.
Oggi la scuola pubblica sembra il terreno di una guerra permanente fra opposti ideologici destinati a non incontrarsi mai, eppure lei scommette su un patto possibile fra forze politiche diverse per una scuola condivisa. Come si ricostruisce l’incontro su un terreno comune? E’ possibile, con un cambio di scenario politico, archiviare la demonizzazione della cultura del ’68, l’abituale confusione tra merito e meritocrazia, la cancellazione delle regole condivise, nel nome della lotta al “permissivismo”, con atteggiamenti autoritari e punitivi?
Io ho l’impressione che le posizioni tra il Partito Democratico, le altre forze del centrosinistra e il nuovo Terzo Polo si siano nel tempo riavvicinate. E’ vero che qualcuno nel centrosinistra è caduto nel tranello dell’”emergenza scuola”, si è fatto colpire dalla propaganda sulla “meritocrazia”, ma su questi fondamenti c’è la possibilità di mettersi d’accordo. Il merito, ad esempio, va premiato, ma questo tema, quello dell’eccellenza, riguarda soprattutto l’università. Occorre mettere le mani sulla condizione attuale delle scuole: completare un percorso iniziato e mai portato fino alle scuole secondarie, colmare il divario crescente tra istituti professionali, tecnici e licei. In passato la scuola svolgeva un ruolo di emancipazione, oggi non più. Aumentare a dismisura le tasse e i costi dei percorsi di istruzione vuol dire operare una selezione di classe. Tutto questo va bonificato attraverso un patto di stabilità, che metta la scuola al riparo dagli scossoni politici e lavori per un cambiamento in profondità.
Nel corso della Festa Democratica Nazionale della Scuola, molti relatori hanno posto la necessità, nel momento in cui il centrosinistra dovesse tornare al governo, di ripartire soprattutto dalla valorizzazione delle esperienze positive, lasciando per una volta la scuola al riparo dall’ennesima riforma che stravolge tutto. Lei che cosa ne pensa? Viene prima la riforma dei cicli o il rilancio dell’autonomia scolastica?
La riforma dei cicli è la prima condizione, è assolutamente necessaria. Abbiamo portato per legge l’obbligo scolastico a 16 anni ma è evidente che a questa misura si deve accompagnare una riorganizzazione dei percorsi formativi sullo schema del 4+4+2. Questo è indispensabile perché la scuola dell’obbligo possa ridurre la selezione che applica ora, bisogna mettere mano sulla scuola secondaria per renderla all’altezza dei suoi obiettivi.
Terminiamo con il tema dei docenti: nel patto per la scuola condivisa, ci sarà spazio per definire una volta per tutte un percorso di formazione iniziale e di accesso all’insegnamento?
La formazione iniziale è stata cancellata e occorre ripristinarla. Penso che le SSIS vadano ripristinate, magari non con una struttura unica, ma all’interno delle diverse facoltà universitarie. Poi Scienze della Formazione dovrebbe fare da congiunzione tra i percorsi, occupandosi di fornire gli strumenti metodologici, della didattica, ai futuri insegnanti.
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