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"Le ragioni per non dire no ai palestinesi", di Lapo Pistelli*

L’Italia è un grande Paese ma il Premier è oramai un paria dellam comunità internazionale. Capi di Stato e di governo fuggono gli incontri bilaterali, le conferenze stampa e le foto ricordo poiché incombe sempre il colpo di scena, il commento impronunciabile. Berlusconi è un leader scaduto ed è finita la favola dell’uomo che da del tu al mondo. Il Primo Ministro non sarà a New York, nonostante il Mediterraneo sia al centro di alcune decisioni. Noi democratici diciamo la nostra sulla più rilevante. Il 20 settembre, i palestinesi depositeranno una risoluzione per chiedere il riconoscimento del loro Stato. Se depositata al Consiglio di Sicurezza per tentare il
riconoscimento pieno, essa avrà bisogno di almeno nove voti favorevoli e nessun voto contrario da parte dei membri permanenti, uno scenario reso impossibile dall’annunciato veto Usa. Se depositata all’Assemblea, essa richiederà il sì di 129 Paesi, i due terzi dei componenti. In tal caso, l’OLP passerà da «osservatore permanente» a «Stato non membro» (come il Vaticano), un riconoscimento che impegna i Paesi a favore, non gli altri. Questo nuovo rango darebbe maggiore forza negoziale e permetterebbe di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale, potendo così sollevare singoli casi del contenzioso con Israele. Tutte le parti hanno tessuto iniziative, i palestinesi per guadagnarsi consensi, gli israeliani per sottrarli, gli americani e gli europei per
proporre alternative, una risoluzione che fissi o una nuova base negoziale o un impegno al negoziato diretto che eviti il voto o una proposta di «upgrade» che elevi lo status a qualcosa di meno di «Stato non membro». Da anni, il negoziato è fermo. I Paesi occidentali portano una responsabilità e se oggi ci si preoccupa del «giorno dopo», questo accade per le inerzie del «giorno prima». Abu Mazen si gioca tutto: settembre 2011 era la data limite per la fine dei negoziati secondo il Quartetto, ma da due anni non accade niente; la Cisgiordania governata da Fayyad è molto cambiata; la primavera araba ha dato nuovi sostegni; la scelta netta per la diplomazia come metodo ha allargato le simpatie internazionali e dato probabilmente i voti necessari in
Assemblea.
Israele vive il tempo del suo isolamento diplomatico: non ha previsto i mutamenti regionali, ha visto allontanarsi Egitto e Turchia, soffre un crescente criticismo contro Netanyahu da parte laburista ma anche di Khadima («un disastro diplomatico senza precedenti» secondo Livni). Israele fronteggia un dilemma storico. Esso rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e si sente «focolare» per il popolo ebraico. Nel momento della nascita, all’Onu, il Presidente Truman impose la modifica del nome, da «Jewish National State» in «State of Israel»: il carattere territoriale e democratico del nuovo Stato doveva prevalere sulla natura religiosa. Oggi le tendenze demografiche, a causa dell’occupazione, portano un aumento della popolazione palestinese e una contrazione di quella ebraica. Perciò, l’unica condizione per mantenere le due caratteristiche è la pace, il ritorno ai confini del 1967, con gli scambi necessari. Fuori da ciò c’è la negazione della realtà, l’aspettativa di una leadership Usa più «amica», la speranza di una crisi regionale che costringa il mondo ad occuparsi della
sicurezza di Israele.
Stati Uniti ed Europa sono nel gruppo dei sicuri perdenti politici. La Casa Bianca, costretta dall’antica amicizia, ha annunciatoil suo veto: si indebolisce la simpatia guadagnata da Obama nelle piazze arabe e si dimostra insufficiente la pressione diplomatica esercitata. Una Europa debole si accinge a dividersi dagli Stati Uniti e al suo interno. L’Italia è davanti a un clamoroso passo falso se non torna indietro dall’annunciato voto contrario promesso da Berlusconi. Noi siamo da sempre «equivicini»: due popoli due Stati, una forte amicizia con Israele e altrettanto forti motivazioni per sostenere l’aspirazione palestinese. L’Italia ha una posizione-Paese consolidata, che non può essere schiacciata oggi da una posizione-Governo. L’Italia ha un interesse nazionale che le viene dal Mediterraneo e che non le consente di giocare con i sentimenti profondi di opinioni pubbliche che si sono rimesse in moto. Ci sono dunque tutte le ragioni per dire sì, assieme ad alcuni partner europei,
consapevoli certo che solo il ritorno al negoziato diretto potrà poi risolvere le questioni aperte, comunque vada. Ma sarà il governo e non il Pd a votare a New York. E allora chiediamo a chi lo rappresenterà di avere un atteggiamento lungimirante, corrispondente all’intero Paese. Un voto di astensione non accontenterà le due opzioni più marcate ma permetterà all’Italia di rientrare nella Ue e di non graffiare gratuitamente il ruolo che dobbiamo giocare nel Mediterraneo. Non facciamoci del male inutilmente.

*Responsabile esteri Pd

L’Unità 19.09.11