Si dice che in crisi delicate come quella che stiamo attraversando i commenti improvvisati dei leader politici sono tra i fattori che più spingono i mercati al ribasso. C’è addirittura chi ha costruito un diagramma che affianca le dichiarazioni dei maggiori leader europei e gli andamenti dei titoli pubblici dei Paesi in difficoltà. Ne esce un’impressionante coincidenza fra tali dichiarazioni e le impennate degli spread. Sarebbe presuntuoso dire che gli editoriali e gli articoli che tanti di noi scrivono sugli stessi argomenti possono produrre effetti altrettanto rilevanti. Ciò non esclude, però, che dovremmo almeno non fare danni e, possibilmente, assolvere al vero compito di chi scrive sui giornali: aiutare chi legge a capire ciò che sta succedendo e magari illuminare la strada di chi è alle prese con i problemi da noi commentati o discussi. Ebbene, leggendo ciò che si viene scrivendo sul tema dei debiti sovrani europei, non ho l’impressione che questi criteri siano sempre rispettati.
Al contrario, mi pare che prevalgano sempre più le analisi e le proposte più estreme, all’insegna di quel “pensare l’impensabile” a cui retoricamente si ricorre quando il pensabile si è esaurito, con l’effetto di prendere le distanze dal campo di battaglia e di lasciarvi soli gli operatori, accrescendone caso mai le incertezze e le angosce.
A suscitare in me questa reazione sono le voci sempre più numerose, che sostengono l’indispensabilità di nulla di meno dell’integrazione politica per uscire dai guai in cui ci troviamo, nonché quelle, a loro volta crescenti, che preconizzano default nazionali a catena e morte dell’euro come gli esiti più prevedibili che abbiamo davanti. Ora, lo capisco benissimo che quando la matassa si aggroviglia, chi è immerso ad occhi bassi nel tentativo di sbrogliarla può avere bisogno di qualcuno che lo aiuti ad alzare gli occhi e a trovare la sua vita di uscita. Chi mi conosce, inoltre, sa bene quanto io sia convinto della necessità di rafforzare l’integrazione politica europea e pensi, fra l’altro, agli eurobond in questa stessa prospettiva.
Due cose però mi colpiscono. La prima è che, nonostante la diversità degli argomenti utilizzati, i fautori dell’integrazione e i profeti di sventura finiscono in realtà per approdare alla stessa conclusione. La seconda è che i giornali sui quali è da ultimo evocata più di frequente la necessità dell’integrazione politica europea per mettere l’euro al sicuro sono L’Economist e il Financial Times. Può darsi che a pensare male qualche volta si sbagli, ma mi chiedo quale sia il messaggio che queste convergenze trasmettono a chi legge, si tratti di operatori finanziari, di imprenditori, di consumatori o di funzionari pubblici. Il più probabile è: «Quale che sia il fronte su cui combattete, lasciate perdere. L’esito è segnato».
È un messaggio sbagliato. Ed è sbagliato perché lontano dalla realtà dei fatti, che si dipanano lungo percorsi neppure sfiorati da chi punta solo alle soluzioni estreme. Fra quanti quei fatti li vivono la previsione più diffusa è che ci vorranno anni per uscirne e che nel corso di questi anni attraverseremo un non esaltante processo di avanzamenti, rallentamenti e aggiustamenti, di sicuro molto più costoso di quanto potrebbe essere altrimenti e tuttavia capace di un approdo, che non sarà né l’Europa divenuta federale, né l’euro perduto lungo la strada.
Certo, questa prospettiva mette fuori quadro i generalissimi argomenti con cui nutriamo gli editoriali che amiamo scrivere di più. E ci costringe a un’analisi ravvicinata della tormentata navigazione in corso e delle mosse volta a volta necessarie per evitare gli scogli. Ma è solo così che, a questo punto, evitiamo di apparire profeti (o menagramo) che parlano dall’eremo.
Prendiamo il caso oggi più spinoso, che è il caso greco. La Grecia è in grande sofferenza, ha abbattuto in pochi mesi di oltre sei punti del Pil il suo indebitamento riducendo stipendi e pensioni e alzando le imposte, il suo tasso di crescita è ampiamente sottozero, eppure le viene detto che ancora non basta. Proprio venerdì l’Ecofin ha rinviato l’attesa tranche di 8 miliardi di prestito europeo, che servono ai greci per pagare gli stipendi.
Con questi dati in mano, possiamo certo desumere che la Grecia finisca in default. Ma è anche possibile che continui a trascinarsi in una sequenza di default parziali (in quanto tali mai ultimativi come il default totale) e di parziali aggiustamenti. Lo scambio di titoli previsto nell’accordo in corso di elaborazione con i creditori privati comporta già un valore ridotto per i titoli oggi in circolazione e alla fine il debito complessivo dovrebbe uscirne abbattuto di almeno il venti per cento.
È un default parziale? Non sta a me dirlo, ma di sicuro farà parte della sequenza che prima dicevo. Ed è una sequenza in fondo alla quale l’Europa non sarà federale, ma l’euro sarà vivo e viva, ancorché esangue, potrebbe essere la stessa Grecia.
E l’Italia? L’Italia è sotto attacco da tempo, vive essa stessa sotto l’incubo di spread sempre più elevati e di acquirenti sempre più diradati per i suoi titoli. Ha pericolosamente sbandato nella messa a punto dei rimedi, che sono venuti cambiando di giorno in giorno, e se la cava per ora sotto la tenda ad ossigeno degli acquisti della Banca centrale europea. Ce la farà quando sarà fuori dalla tenda? È facile uscirsene con prognosi negative per la stessa Italia e, ancora di più che nel caso greco, per l’euro, magari aggiungendo, come fa George Soros nell’articolo che pubblica oggi Il Sole 24 Ore a pagina 19), che creando subito un ministero del Tesoro europeo l’euro (e anche l’Italia) li potremmo salvare.
Purtroppo il Tesoro europeo non è all’ordine del giorno, mentre all’ordine del giorno è possibile e necessario mettere le misure che concorrono al tasso di crescita dei paesi in difficoltà, in modo da garantire, oltre che la sopravvivenza dei loro cittadini, il pagamento dello stesso debito futuro. Preoccupiamoci allora di avere politiche nazionali più efficaci di quelle attuali, un costante sostegno della liquidità delle banche, un robusto impegno europeo che si avvalga, già oggi, di quegli eurobond finalizzati agli investimenti, che non destano in Germania la diffidenza degli eurobond proposti da più parti per alleggerire i debiti nazionali. Anche questi potranno arrivare, ma in una fase successiva della sequenza, quando avremo avviato, rodato ed eventualmente migliorato il fondo europeo salva-Stati.
L’ho già detto, non è esaltante. Non a caso i mercati ne parlano dicendo muddling through, che in italiano tradurrei con “navigare a vista”. Non li lasciamo soli. Se vogliamo un domani con l’euro incastonato nell’integrazione politica europea, sarà davvero difficile arrivarci se non ci impegneremo tutti nel muddling through che ci attende nel futuro più prossimo.
Il Sole 24 Ore 18.09.11