Ci sono giorni in cui il destino ti mette sotto gli occhi tutto quello che non vorresti vedere, da cui scappi, e lo fa con una chiarezza che non lascia scampo. Ieri è stato uno di quei giorni per Silvio Berlusconi e per l’Italia. Una micidiale coincidenza ha messo in fila i nuovi guai giudiziari del nostro premier, la drammatica situazione economica con il crollo della nostra credibilità internazionale e l’assenza del nostro Paese dalla politica internazionale che conta. Partiamo da quest’ultima. Ieri a Tripoli il Presidente francese e il premier inglese sono stati ricevuti da una folla festante, accolti come liberatori, per Sarkozy perfino i fiori. Nessun italiano nelle immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Eppure alla guerra in sostegno dei ribelli contro Gheddafi abbiamo partecipato anche noi, ma ci siamo accodati malvolentieri e oggi abbiamo altro a cui pensare. Mentre francesi e inglesi costruiscono il loro futuro sulla sponda del Mediterraneo di fronte a casa nostra – compito che si è dato anche il premier turco Erdogan, pure lui in visita in Libia, dopo essere stato in Egitto.
Il nostro presidente del Consiglio invece ha passato la giornata in silenzio, chiuso con i suoi avvocati a studiare le carte e le grane giudiziarie che arrivano da Bari, Milano e Napoli.
Ieri la Banca d’Italia ha certificato la fuga degli investitori stranieri dai titoli di Stato italiani: nel solo mese di luglio ci sono state vendite dall’estero di titoli di debito italiani per 21 miliardi di euro. Gli stranieri vendono e a comprare, per non far saltare il Paese, sono le banche italiane e la Banca d’Italia. Ma a liberarsi del nostro debito – come spiega in queste pagine il professor Franco Bruni – non sono speculatori ma fondi pensione europei e americani, seri e rispettabili, che lasciano i titoli italiani perché non danno loro più fiducia. Non siamo credibili, ripetono ormai con micidiale costanza analisti e giornali di tutto il mondo. Difficile dare loro torto, se in contemporanea le agenzie italiane diffondevano l’elenco dettagliato delle ragazze «indotte all’attività di prostituzione in favore di Silvio Berlusconi», premurandosi di specificare anche le ville o i palazzi dove ognuna delle donne ha partecipato alle «serate galanti». A Milano nel frattempo si chiedeva di processare il premier per aver avuto un ruolo nella divulgazione dell’intercettazione della famosa telefonata tra Piero Fassino e l’assicuratore Giovanni Consorte in cui si parlava dell’acquisto da parte di Unipol della Bnl. A Napoli intanto i pubblici ministeri attendono di sapere se Berlusconi si farà interrogare nel procedimento che riguarda i ricatti da lui subiti dalla coppia Tarantini-Lavitola, a cui ha pagato diverse centinaia di migliaia di euro nell’ultimo anno.
Siamo immersi in una nuova bufera giudiziaria, il premier può accusare i magistrati di accanimento ma questa volta non può più giustificarsi sostenendo che si tratta di vecchie vicende, dei tempi in cui faceva l’imprenditore, perché tutte le indagini aperte riguardano gli ultimi due anni e sono figlie della sua vita spericolata.
Per molto tempo ci siamo permessi il lusso di essere guidati da un uomo che doveva dedicare molto tempo per difendersi nei processi o più spesso dai processi, siamo mancati come Paese sulla scena internazionale perché le priorità del premier erano altre, ora però il gioco è diventato troppo pericoloso e devastante per tutti. Avere un presidente del Consiglio che deve passare ore con i suoi avvocati per mettere in piedi strategie difensive è indubbiamente un danno per una nazione, quel tempo è inevitabilmente sottratto alle attività istituzionali, siano queste la politica estera o le finanze pubbliche. In passato però non c’era modo per quantificare con sicurezza quanto questo costasse alla collettività e ai cittadini italiani. Oggi purtroppo tutto ciò è immediatamente percepibile: sono il crollo drammatico dei valori delle azioni, l’innalzarsi degli interessi che dobbiamo pagare per riuscire a piazzare i nostri titoli di Stato e il conseguente aumento di tasse varie a cui siamo sottoposti in conseguenza. Non sto dicendo che la profonda crisi economica sia conseguenza diretta dei processi berlusconiani, anche se oggi la credibilità e la serietà sono le merci più apprezzate sui mercati, ma che in un momento così delicato abbiamo bisogno di una guida che pensi soltanto a come salvare il Paese, che metta l’interesse nazionale molto sopra al proprio. Che non pensi a come bloccare le intercettazioni ma a come partecipare alla ricostruzione della Libia e che sia pronto per il verdetto delle agenzie internazionali di rating che potrebbe esserci recapitato questa sera.
Sono passato alla Camera dei Deputati l’altro ieri pomeriggio, non ci andavo da parecchio tempo, e sono rimasto colpito dalla sensazione di lontananza dal Paese reale che si respira. Mentre fuori scoppiavano due bombe carta e gli elicotteri della polizia volteggiavano su Montecitorio, dentro il Palazzo non si avvertiva quell’urgenza e quell’emergenza che oggi ogni cittadino sente sulla sua pelle. Ho visto grandi conciliaboli per discutere come salvare dall’arresto Marco Milanese, l’ex braccio destro di Tremonti, ho visto il responsabile Scilipoti proporre allegramente nuovi condoni e un gruppo di ministri valutare l’opportunità di un decreto di urgenza per bloccare la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni.
Alcuni pensano che non si possa andare avanti così, ma nessuno lo dice ad alta voce e la convinzione comune è che si continuerà navigare a vista, giorno dopo giorno. «Li vede – mi ha detto un ministro indicando la folla dei deputati che usciva dall’Aula – nessuno di loro vuole andare a casa, perché la gran parte dei parlamentari è convinta che non verrà mai più rieletta e allora resistono e garantiscono la maggioranza». Una maggioranza esiste, un governo anche, ma l’Italia sta affondando e diventa sempre più piccola. Ogni giorno ci sembra d’aver toccato il fondo ma con angoscia scopriamo che si può scendere ancora. Il Paese ha bisogno di essere governato, di avere una direzione e un po’ di speranza. Gli italiani non meritano di vivere in quest’angoscia.
La Stampa 16.09.11