D´accordo, era rosso: un colore troppo acceso e impegnativo per la Rai del regime televisivo. Ma che cos´altro aveva di così sovversivo il divano di Serena Dandini nell´allegro salotto di “Parla con me”? Tanto da provocare un improvviso ripensamento, ammesso che ai piani alti di viale Mazzini qualcuno sia ancora in grado di pensare davvero al bene dell´azienda, dopo l´accordo raggiunto dal direttore generale e ad appena due settimane dall´inizio della trasmissione?
Già parlare di censura politica, per un programma di costume e di satira, al giorno d´oggi appare francamente spropositato. Ma tant´è. Come ai brutti tempi di Dario Fo e Franca Rama o di Alighiero Noschese, i vecchi tempi del monopolio in bianco e nero, la storia (televisiva) purtroppo si ripete. Evidentemente, quel divano rosso era diventato troppo scomodo per i “mandarini” della casta, per i satrapi del potere berlusconiano o per gli ultimi epigoni di un potere ormai in declino.
«È un´occupazione politica», protesta la Dandini, quasi si accorgesse soltanto adesso che è in atto (da tempo) un´occupazione “manu militari” del servizio pubblico. E d´altra parte, se si trattasse davvero di una questione economica – secondo la versione ufficiale del Palazzo – in un certo senso sarebbe ancora più grave: perché allora a dimettersi immediatamente dovrebbe essere Lorenza Lei, ex “signora di ferro” degradata ormai al rango di “direttora di latta”, sconfessata dal consiglio di amministrazione che ha bocciato la sua proposta di contratto. Per un minimo di coerenza e di decenza.
Ma può mai un divano, seppure di colore rosso, costare più di un´intera Isola dei (cosiddetti) famosi? Perché una trasmissione satirica, realizzata fra le quinte di uno studio televisivo, viene abrogata dalla scure dei tagli aziendali e invece si autorizza un bordello (in senso metaforico) a cielo aperto, sperduto in mezzo al mare dall´altra parte del mondo? E che cos´è di più servizio pubblico, un garbato e divertente talk-show serale o un baccanale esotico via satellite di finti naufraghi?
Il degrado della Rai non aveva certamente bisogno di questa ulteriore conferma, dopo i casi di Michele Santoro, Paolo Ruffini e Lucia Annunziata. Ma quella di ieri è un´autocertificazione d´impotenza e di resa, firmata dallo stesso cda o meglio dalla sua ineffabile maggioranza, composta da replicanti della politica, cloni del centrodestra, commissari di governo. Una scelta che danneggia l´azienda, la sua residua credibilità, la sua immagine. E danneggia, soprattutto, i cittadini che ancora pagano regolarmente il canone d´abbonamento.
A parte tutte le miserevoli motivazioni più o meno politiche, c´è però una filosofia perversa al fondo di quest´ultima decisione. L´idea-guida di una tv pubblica ridotta alla funzione di intrattenimento e di evasione, secondo la sottocultura del bunga-bunga, in una generale “opera buffa a luci rosse” come ha scritto nei giorni scorsi il New York Times a proposito dell´Italia berlusconiana. Una televisione neutralizzata, normalizzata, sterilizzata; definitivamente omologata al modello – si fa per dire – della tv commerciale.
È proprio questo, a ben vedere, il danno maggiore prodotto dalla malagestione della Rai. Lo smantellamento e la liquidazione di un´azienda di Stato, magari a beneficio del concorrente privato. Non parliamo questa volta di informazione, di impegno civile, di formazione dell´opinione pubblica. Parliamo solo di satira, quella che fa ridere e magari anche pensare i telespettatori. E invece, proprio per questo, fa paura agli uomini e alle donne del potere.
La Repubblica 16.09.11