L’ANVUR, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca introdotta dal ministro Mussi e insediata dal ministro Gelmini, ha appena reso noti i criteri e i parametri con cui dovranno essere valutati i candidati e i commissari dell’abilitazione scientifica nazionale (in pratica, i concorsi). Ed è già polemica. Il più severo è stato, nei gironi scorsi, il filosofo Tullio Gregory con un articolo pubblicato sul Corriere della Sera.
I criteri e i parametri assunti dall’ANVUR sono quelli quantitativi usati a livello internazionale, basati sui dati bibliometrici: numero articoli su riviste con peer review, numero di citazioni, H index (numero di articoli per autore che hanno ottenuto un numero minimo di citazioni).
Tullio Gregory sostiene, a ragione, che questi parametri di tipo quantitativo non sono in grado di dare una valutazione affidabile della qualità del lavoro scientifico. E che affidarsi a questi parametri favorirà l’omologazione culturale. Queste critiche sono antiche e non immotivate (soprattutto nell’ambito delle discipline umanistiche). Se ne parla, a livello internazionale, da almeno trent’anni.
Senza venirne a capo. Perché non ci sono – o, almeno, nessuno li ha trovati a tutt’oggi – criteri migliori, da applicare peraltro a larga scala, che consentano di garantire l’oggettività della valutazione di un lavoro scientifico.
L’ANVUR non può non applicare questi criteri. Tanto più in Italia, dove è stato dimostrato – basti pensare alle valutazioni degli ultimi PRIN (Progetti di ricerca di interesse nazionale) – che anche i criteri non quantitativi (come la peer review ex ante dei progetti) utilizzati a livello internazionale finiscono per essere distorti e piegati a prassi che non premiano il merito.
L’Italia giunge buon ultima a utilizzare i criteri di valutazione bibliometrici. Non sarebbe credibile se fosse la prima a rifiutarli perché li ritiene non abbastanza perfetti.
L’Unità 13.09.11