Il capo è mio e me lo contesto io. Nella risorgente stagione dell’intolleranza popolare per i politici, sta prendendo corpo un fenomeno nuovo: la contestazione sulla pubblica piazza di big della politica da parte di militanti della stessa area. Per ora si tratta di piccoli scrosci, eppure la casistica si sta velocemente infittendo. Nel giro di poche settimane, uno dopo l’altro, sono stati presi di mira non soltanto leader oramai temprati come Massimo D’Alema o Silvio Berlusconi, ma anche personaggi finora immuni a contestazioni da parte dei propri aficionados. Come Gianfranco Fini, Umberto Bossi, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi. Persino il sindaco di Firenze Matteo Renzi, il rottamatore dei «vecchi», per qualche minuto, è finito dentro il tritacarne e proprio nella sua città.
E’ come se si stesse rapidamente consumando quell’aura di rispetto che in lunghe fasi della Repubblica ha preservato anche i leader più controversi dalle proteste dei propri fans. Per il professor Alessandro Campi, siamo ad un passaggio di fase, ad un tornante a suo modo «storico»: «Si stanno sommando un fenomeno più epidermico, il malessere in una fase di stallo politico e di crisi economica e un fenomeno più profondo, di lunga durata. Sta cioè cominciando ad entrare in crisi il modello della leadership monocratica, inamovibile e carismatica creata da Berlusconi ma mutuata da quasi tutti gli altri. Cittadini ed elettori, che in quello schema erano relegati in un ruolo subordinato e di ascolto, stanno tornando a voler essere protagonisti, dicendo la loro».
E proprio questo «riprendersi la parola» da parte dei cittadini-militanti sembra essere il filo rosso che congiunge contestazioni tra loro assai diverse. L’altra sera il sindaco di Firenze Matteo Renzi si è presentato alla festa democratica della sua città con il consueto armamentario di battute taglienti che finora alle feste del Pd gli avevano garantito tanti applausi e qualche sopito mugugno. Ma l’altra sera, quando ha ribadito con schiettezza e argomentazioni lapidarie i motivi per i quali non ha aderito allo sciopero generale della Cgil, stavolta dalla platea sono sibilate urla: «Vergogna!». E quando Renzi ha detto che, a suo parere era giusto varare una manovra da 45 miliardi, si sono alzate di nuovo grida belluine: «Torna ad Arcore!». Certo, con le consuete battute «pane al pane» («Toglietevi il prosciutto dagli occhi, se a Firenze abbiamo salvato asili e servizi sociali è perché abbiamo fatto un accordo col governo»), alla fine Renzi se ne è andato tra gli applausi, ma intanto sulla sua immagine è restata l’ombra della mini-contestazione in casa.
Ma se un personaggio come Renzi le proteste in qualche modo se le va a cercare, ben diverso è il destino che ha colpito due veterani, sinora immuni da contestazioni in casa come Bossi e Fini. Nel giro di 25 giorni, ai due è capitato qualcosa che non avevamo mai visto in 25 anni. Fino a pochi mesi fa, quando Bossi o gli altri leghisti arrivavano all’hotel Ferrovia di Calalzo di Cadore, si apriva un pellegrinaggio a caccia di baci, foto ricordo, in un cicaleggio di «viva Bossi» e «viva la Lega». Quest’anno è girato il vento. Dopo Ferragosto, accerchiato dalle contestazioni da parte dell’(ex) popolo leghista bellunese, Bossi si è mimetizzato tra baite e uscite laterali e alla fine ha dovuto lasciare (di notte) l’hotel. E su Fini, due giorni fa, è caduta una mini-contestazione proprio nella «sua» Mirabello, il paese emiliano dove era nata la mamma e dove 24 anni fa Giorgio Almirante lo lanciò come proprio erede. E una settimana fa, Pier Luigi Bersani ha attraversato tra sorrisi e applausi il corteo della Cgil, ma anche lui ha dovuto ascoltare qualche rasoiata a lui indirizzata: «Siete tutti uguali…».
Persino a personaggi come Nichi Vendola e Rosy Bindi, in costante feeling con le proprie platee, è capitato di incorrere in contestazioni, seppur fugacissime: al Governatore pugliese davanti a Mirafiori; alla presidente del Pd, il 9 luglio a Siena, quando davanti all’assemblea delle donne «Se non ora quando?», è stata fischiata non appena ha detto: «Chiederò al mio partito di ascoltare le vostre ragioni…». Dice il professor Arturo Parisi, un politico che la politica l’ha studiata per decenni: «E’ ripartito tutto con i referendum: 27 milioni di italiani ci hanno spiegato quanto sia impellente la domanda di partecipazione diretta e di massa. Quando si aprono cicli di questo tipo non tengono più i canali delle deleghe, le tranquille passeggiate nei cortei…».
La Stampa 13.09.11