A me pare del tutto evidente che la crescita in Italia non tornerà più finché non si andrà a metter mano al problema gigantesco della perdita di competitività dei nostri prodotti sui mercati mondiali a causa dell’avvento di questa globalizzazione selvaggia, al fatto che abbiamo letteralmente consegnato ai cinesi le chiavi di casa nostra. Contrariamente a quanto ci viene detto, questa non è una crisi globale. È la crisi dell’Occidente. La Cina, l’India, il Brasile, la Russia crescono. Crescono eccome. Sono i Paesi che profittano dalla globalizzazione mentre noi la subiamo. Vittime e prigionieri della rigidissima disciplina di bilancio europea e del sacro terrore degli abbaioni dei mercati finanziari, schiacciati come siamo dalla soma del nostro titanico debito e della nostra altissima — e condivisissima — evasione fiscale, non possiamo né lanciare programmi di spesa infrastrutturale, né abbassare le tasse alle piccole e medie imprese e ai loro dipendenti, come qualche giorno fa ha proposto Obama. Eppure bisogna ricominciare a crescere. Come?
Una volta scalciata nel dimenticatoio l’idea che la nostra economia possa sostenersi coi soli servizi, mi pare difficile, se non impossibile, ipotizzare in Italia una crescita che non sia trainata dall’industria e dall’artigianato. Ma quale industria? Quale artigianato?
Abbiamo bisogno di una crescita vera, che duri anni e crei ricchezza condivisa. Una crescita che non porti solo un aumento dei fatturati delle aziende, ma un aumento dell’occupazione a tempo indeterminato. È evidente da anni che gran parte delle aziende italiane, soprattutto le più grandi, riescono ormai a creare occupazione stabile solo all’estero, attraverso la delocalizzazione. Non in Italia.
Non abbiamo solo bisogno di nuovi politici che sostituiscano la gran falange di avvocati e commercialisti che ci governa oggi. Abbiamo bisogno di nuovi imprenditori che si aggiungano a quelli che già ci sono. E bisogna andare a cercarli col lanternino tra quelle ragazze e quei ragazzi meritevoli che nemmeno le nostre povere scuole sono riuscite a fiaccare. Non solo nelle case patrizie, dove sono però molti i giovani costretti a mordere il freno, ma ovunque, anche e forse soprattutto tra le figlie e i figli dei disoccupati, dei cassintegrati, degli immigrati. Bisogna andare a cercare le migliori e i migliori di quella generazione dimenticata, alla quale ormai tanti anni fa era stato promesso — ricordate? — un nuovo miracolo italiano.
Perché abbiamo bisogno di nuove aziende. Aziende che usino la globalizzazione invece di subirla, che ricordino la cruda lezione del declino del manifatturiero e siano capaci di superarla e sublimarla. Aziende che producano solo ed esclusivamente prodotti impossibili da fabbricare a prezzo ridicolmente più basso in Cina o in India o in Vietnam. Aziende diversissime tra loro: aziende senza neanche una macchina, che producano e vendano idee ed esistano solo su Internet, oppure ancora aziende artigianali che però sappiano mettere in comunione l’artigianato delle mani con un nuovo artigianato del pensiero.
Migliaia e migliaia di aziende piccole e furbe e agili che sappiano vendere cultura, prima e più d’ogni altra cosa, ispirandosi all’unico punto di forza che ci viene universalmente riconosciuto e discende direttamente dal Rinascimento, quel patrimonio di eccellenza e gusto e sapienza e creatività ed eleganza e saper vivere che gli americani, gli inglesi, i giapponesi, i tedeschi e ora anche i cinesi ci invidiano e che, se fatto diventare prodotto, riusciremo sempre a vendergli. Sempre.
Aziende future, tutte da inventare, libere di non doversi limitare a innovare l’esistente, ma protese a creare il nuovo. Aziende che vendano prodotti che oggi non esistono, e dei quali io non capisco né il funzionamento né l’utilità, ma i miei figli sì. Potrebbe essere proprio questo uno dei requisiti per capire se un prodotto è davvero innovativo, e se avrà la possibilità di aver successo in futuro: se lo capisce la mia generazione, allora è un prodotto vecchio, e probabilmente esiste già.
Dobbiamo fornirle di capitale, però. E i soldi vanno necessariamente presi dalla montagna di denaro bigio appena tornata dalla Svizzera. Basterebbe l’un per cento di quella montagna, e sarebbe come staccare un pelo da un cinghiale. Ma sarebbe anche un miliardo di euro — soldi sacri, da difendere con le mazze ferrate e coi lanciafiamme, da tenere lontani dalle mire di tutte le cricche e di tutti quei maledetti ladri che per anni hanno profittato d’uno Stato cieco e sordo e negligente. Non
un regalo. Quando le nuove imprese create dalle nostre ragazze e dai nostri ragazzi saranno salde sulle gambe, dovranno rendere il denaro
che li ha aiutati a nascere.
Sia chiaro, non vengo da Marte. Lo so benissimo che in Italia l’industria finanziata dallo Stato ha sempre, o quasi sempre, prodotto perdite e sprechi. Non sono nemmeno un teorizzatore dell’intervento dello Stato nell’economia — tutt’altro. Però credo che l’avvento brutale di questa globalizzazione selvaggia abbia cambiato per sempre le regole dell’economia mondiale, e a nostro danno. Oggi, lasciar fare al mercato vuol dire continuare inermi ad assistere a un declino inarrestabile, deciso oltralpe e oltreoceano e da noi subìto. E credo anche che lo Stato possa essere governato molto meglio di come è stato governato finora. Nonostante tutto, ho ancora fiducia nella politica e nei suoi liberi poteri.
Certo, è una scommessa. Una scommessa gigantesca, senza certezza alcuna di successo né di ritorno. Ma almeno ci saremo scrollati di dosso il pastrano del pessimismo e dell’inazione, e avremo scacciato la maledizione che vuole che l’Italia non sia più un Paese dove intraprendere.
Son sicuro, funzionerebbe. O, meglio, funzionerà se saremo capaci di investire in un’idea e in un popolo, di comportarci come quei padri e quelle madri che capiscono che l’unico modo per aiutare davvero i loro figli e le loro figlie è dargli fiducia prima che la meritino, nella speranza forte e calda che un giorno la meritino, nella certezza che la meriteranno. Ci vorrà fede e incoscienza, ragione e sostegno ferreo. Ci vorrà un’unità di intenti che costringerà tutti a cedere qualcosa in nome del bene comune. E ci vorranno anni, ma funzionerà, ne sono sicuro. E mentre attendiamo che funzioni, ci godremo lo spettacolo magnifico e magmatico di migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi alle prese con il tentativo di prendere in mano le loro vite e creare benessere per sé e per il proprio Paese, invece di vederli smarrirsi in un mondo enorme, vuoto e inconoscibile in cui — come comprensibilmente finiscono per pensare, così mozzandosi il futuro — di loro non c’è poi gran bisogno.
Non abbiamo altra strada, mi pare. Le riforme, anche quelle più necessarie, richiedono troppo tempo, troppa capacità di giudizio, troppa condivisione per essere intrapresa da questa classe politica tremebonda, fatta di improvvisati.
Se tutto questo vi sembra ingenuo e utopico, se un sorriso cinico vi si è già allargato sul volto e avete avviato a scuotere la testa, o siete già rassegnati al declino del nostro Paese, o da questo declino vi sentite per qualche ragione protetti.
E sbagliate. Perché i vostri posti di lavoro non dureranno per sempre, e le vostre rendite si estingueranno piano piano, e persino le vostre pensioni sono a rischio. Considerate che gran parte dei giovani italiani non ha nessuna di queste tre cose, e nemmeno una speranza ragionevole di conseguirle in futuro.
I vostri soldi non vi basteranno, e i vostri privilegi svaniranno da un giorno all’altro, come è già successo a tanti. Come è successo a me. For the times they are a-changin’, come cantava mille anni fa Bob Dylan.
*vincitore del Premio Strega 2011
Il Corriere della Sera 13.09.11