La crisi economica attuale è più grave di quella che colpì l’America e l’Europa nel 1929 con le sue ricadute nel ’31 e nel ’37. Allora infatti il sistema monetario mondiale basato sull’oro restò in piedi, sia pure con alcune provvisorie correzioni. Oggi non è così. La globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, i portafogli delle banche gonfie di titoli d’incerta solvibilità, la contrazione dell’economia reale che rischia di trasformarsi in una recessione vera e propria, coinvolgono l’intera struttura monetaria, bancaria e produttiva dell’Occidente ma anche dei cosiddetti Paesi emergenti. Non esistono più compartimenti-stagno.
Qualche settimana fa usammo l’immagine delle “matrioske”, una dentro l’altra raccolte in un unico contenitore. E anche l’immagine dei vasi comunicanti soggetti in ogni loro livello alla stessa pressione atmosferica. Queste due immagini configurano l’intreccio esistente nell’economia mondiale e spiegano perché la crisi attuale non è come quella del ’29 ma molto peggiore.
Gli Stati Uniti cercano d’uscire dal pantano adottando una politica espansiva. La risposta europea è stata finora l’opposto di quella di Obama: rigore per ridurre i deficit di bilancio e il peso dei debiti sovrani. Questa disparità tra le due maggiori economie occidentali non facilita l’uscita dal pantano della stagnazione, tanto più che l’espansionismo di Obama è frenato dal Congresso e dall’imminenza delle elezioni presidenziali. Insomma,
questa volta le nazioni dell’Occidente si salveranno insieme o insieme andranno a fondo.
Sulla manovra italiana – cinque manovre spalmate una sull’altra con un dilettantismo che non ha precedenti, fino all’ultima scritta sotto la congiunta pressione del Quirinale e della Bce – si sono fatte analisi d’ogni genere per metterne in luce gli innumerevoli difetti e infine i pregi dell’ultima redazione “etero-diretta”.
Non staremo dunque a ripeterci se non per constatare che essa non è autosufficiente. La protezione monetaria della Bce resta infatti un elemento fondamentale della sua tenuta, come si è visto con estrema chiarezza nel venerdì nero dell’altro ieri. E’ bastato che il rappresentante tedesco Juergen Stark si dimettesse dalla Banca centrale europea per dissensi sulle operazioni d’intervento a sostegno dei titoli italiani, a provocare l’ennesimo crollo a piazza degli Affari e l’ennesima impennata dello “spread” rispetto ai “Bund” tedeschi.
La manovra voluta dalla stessa Bce e dalle autorità europee dunque non basta. Perché?
Lo dicono – tardivamente – gli stessi veri autori tra i quali non si annovera certo il governo per la semplice ragione che il governo non c’è più: la manovra non è credibile perché mancano totalmente provvedimenti destinati a far crescere l’economia reale.
La Bce aveva raccomandato rigore e crescita, è vero. Ma le misure destinate al rigore le aveva dettagliate e sono state infatti inserite nel decreto, mentre quelle destinate a rilanciare la crescita le aveva soltanto auspicate e genericamente indicate: riforme strutturali di liberalizzazione.
Nessuna di quelle riforme è stata presentata se non si vuole prender sul serio come terapia la riscrittura dell’articolo 41 della Costituzione che comunque diventerà legge non prima di un anno e le cui capacità terapeutiche sono una grottesca patacca.
Solo ieri, dopo le dimissioni di Stark e il crollo dei mercati europei e americani, i veri autori della manovra si sono resi conto che il rigore senza crescita non solo non basta ma è addirittura controproducente: avrà effetti ulteriormente depressivi sul ciclo congiunturale.
In medicina si chiama pancreatite una malattia molto spesso mortale: il pancreas secerne acidi che rendono possibile la digestione del cibo; ma se la ghiandola si ammala quegli acidi invece di favorire la digestione del cibo da parte dello stomaco divorano la ghiandola che li ha prodotti. Così accade per il rigore senza la crescita: il rigore divora l’organismo economico invece di rafforzarlo e l’organismo muore per debilitazione.
Il “gabinetto di guerra” che etero-dirige un governo e un Parlamento inesistenti premerà nelle prossime ore affinché la manovra, con una sua sesta versione, contenga anche elementi di rilancio. Ma quali elementi?
* * *
Abbiamo già accennato alle riforme rivolte ad accrescere la concorrenza. Sicuramente sono utili se configurassero una società veramente liberale, con più mercato, disciplinato da regole e controlli che impediscano lo scivolamento verso oligopoli e rendite di posizione. Si tratta però d’una struttura del tutto ignota alla storia economica del nostro Paese, che richiede una visione coerente e una volontà politica talmente forte da poter smantellare corporazioni, clientele, mafie, delle quali la gigantesca evasione fiscale di cui soffriamo non è che l’inevitabile prodotto.
Una riforma del genere richiede tempi lunghi e soprattutto non può essere etero-diretta perché implica coraggio politico, responsabilità verso il Paese, lucidità tecnica, incisività, sfida all’impopolarità. Pensare che sia questa la riforma capace di rovesciare il “trend” depressivo che ci minaccia significa pensare di giocar con le stelle mentre qui ed ora dobbiamo usare la leva del fisco, la sola che possa produrre risultati rapidi e concreti.
La leva del fisco, se si vogliono realizzare risultati tangibili sull’evoluzione del Pil e quindi rilancio sia dei consumi sia degli investimenti, deve puntare su un alleggerimento delle imposte sui redditi medi fino ad un livello di 50-60mila euro annui lordi e un contemporaneo analogo sgravio delle imposte che, insieme ai contributi previdenziali, determinano il cuneo fiscale che grava sulle imprese e sulle retribuzioni.
Ci vuole inoltre un intervento che acceleri il pareggio del deficit e il saldo attivo delle partite correnti.
Si può fare un’operazione del genere a carico del debito pubblico? Evidentemente no, i saldi del rigore vanno tutelati. Allora come, se non ricorrendo ad una qualche forma d’imposta sul patrimonio? Meglio se ordinaria e non “una tantum”?
* * *
Una parola sulle dimissioni di Juergen Stark dalla Bce. Non si tratta di un atto conforme alla politica del governo tedesco, ma dell’impennata dei “falchi” della Bundesbank che giocano d’anticipo contro eventuali svolte della Merkel in vista d’una nuova “grossa coalizione” con i verdi e con la socialdemocrazia. I “falchi” della Bundesbank sono da sempre contrari ad un’evoluzione dell’Europa verso un vero governo federale e verso un bilancio europeo che si faccia carico della politica fiscale comune.
Le dimissioni di Stark fanno parte di questo scontro all’interno della politica tedesca, tantoché la persona già designata a sostituirlo ha caratteristiche decisamente opposte a quelle del dimissionario.
Se quelle dimissioni hanno provocato una tempesta sui mercati che aveva come oggetto principale la nostra manovra economica, quell’effetto è la prova provata di quanto abbiamo fin qui scritto sulla drammatica incompletezza della nostra politica economica dal lato della crescita. Questo spiega anche le parole durissime della Marcegaglia che per la prima volta ha reclamato non soltanto una manovra definitivamente efficace, ma le dimissioni dell’attuale governo. Non l’aveva mai fatta una simile richiesta; l’ha fatta venerdì scorso ed è stato come il rintocco d’una campana a morte.
Una politica che dia immediatamente rilancio ai consumi e agli investimenti e trovi le risorse necessarie per finanziare questa operazione non può essere etero-diretta né può essere affidata ad un governo fantasma.
Occorre perciò che questo governo scompaia definitivamente e che dia luogo ad una coalizione di tutte le forze responsabili guidata da una personalità democratica che goda della fiducia dell’Europa. Se non ci sarà al più presto questa soluzione, avremo il marasma e lo sfascio. Tenere ancora in piedi un morto che cammina è la cosa peggiore che ci possa accadere.
La Repubblica 11.09.11
1 Commento