Domani le insegnanti della scuola elementare Aristide Gabelli di Torino riceveranno un testo di Roberto Benigni. S’intitola «Amare il proprio lavoro». È il regalo di primo giorno di scuola della loro direttrice, Nunzia Del Vento, che spiega: «L’ho scelto perché noi insegnanti possiamo continuare solo se c’è quello: l’amore per il nostro lavoro. Non ci rimane altro». L’anno scolastico che sta per partire è il primo dopo la serie di cure – qualcuna da cavallo – somministrate da almeno tre ministri – Moratti, Fioroni e Gelmini – con l’ausilio di uno specialista, il dottor Tremonti. Tagli e ristrutturazioni: tutto per far quadrare i conti che non tornano. «La cura è finita e la scuola è depressa», dice Nunzia Del Vento, che oltre che dirigere la Gabelli e altre tre scuole è vicepresidente dell’Asapi, l’associazione delle scuole autonome della sua regione. «In Piemonte», dice tanto per fare un esempio, «mancano 182 dirigenti su 650 scuole». È l’effetto della manovra economica di luglio: sono stati decisi gli accorpamenti di molte scuole, così parecchi direttori o presidi ne avranno più di una da gestire.
Classi ridotte
Se ci mettiamo a spiegare nel dettaglio provvedimenti e interventi delle varie riforme che ora arrivano tutte a regime, non ne usciamo più. Troppo complicato: roba da specialisti. La sintesi è che molto è stato tagliato, per cui per forza di cose il «prodotto» offerto dalla scuola non può essere migliorato. Anzi. «Lei mi chiede quali sono i motivi di sofferenza che ci si presentano quest’anno?», dice il professor Roberto Pellegatta, presidente nazionale DiSal (dirigenti scuole autonome e libere). «Ma il suo giornale non basterebbe a contenerli tutti!». E comincia il cahiers de doléances: «I tagli sono stati fatti in modo indiscriminato: come se un giardiniere tagliasse tutto alla stessa altezza, senza tenere conto che oltre all’erba ci sono le rose e i gerani. Hanno ridotto le ore di lezione. Hanno aumentato il numero di alunni per classe per ridurre il numero delle classi. Hanno ridotto il numero dei dirigenti: un terzo delle scuole italiane non avrà un preside a tempo pieno. Tutto questo cambierà le relazioni interne alle scuole, che da comunità educative diventeranno apparati burocratici. La didattica ne risentirà».
Ricambio mancato
Eppure questo è l’anno in cui il ministero ha cominciato davvero a mettere a posto i precari, trasformandoli in insegnanti di ruolo. «Sì – dice Pellegatta – ma il numero dei messi in regola corrisponde a quello di coloro che sono andati in pensione, anzi il saldo del turn over è negativo. In Italia 137.000 cattedre restano coperte da precari. Vuole un esempio concreto? Io sono preside di un istituto professionale, il Meroni di Lissone: su 102 insegnanti, 42 sono supplenti. È come se un’azienda cambiasse ogni anno un terzo del suo personale. Che qualità potrebbe garantire un’azienda del genere?». Il Berchet è uno dei due (l’altro è il Parini) licei classici più noti di Milano. «La triste verità – dice il preside, Innocente Pessina – è che tutti gli interventi fatti in questi ultimi anni sulla scuola hanno avuto una sola finalità: tagliare i costi. Nessuna decisione è stata presa per una preoccupazione pedagogica». Taglia di qua e taglia di là, la scuola statale sta sempre più diventando, secondo il professor Pessina, come una scuola privata: «Nel senso che se lo studente vuole un servizio, deve pagarlo. Prima ad esempio avevamo una psicologa, e le assicuro che gli studenti che hanno bisogno di un’assistenza di quel tipo sono tantissimi: bene, adesso la psicologa ce la dobbiamo pagare. Dobbiamo chiedere agli studenti contributi per servizi che un tempo riuscivamo a far rientrare nel budget: come il gruppo teatrale. E ormai dobbiamo chiedere un contributo volontario – 125 euro all’anno – anche per coprire i costi di gestione ordinaria». E beato lui che se lo può permettere perché sta in centro a Milano, pensa Nunzia Del Vento. La sua scuola Aristide Gabelli è a Barriera Milano, uno dei quartieri più difficili di Torino, da sempre popolato da immigrati: prima quelli che venivano dalle campagne, poi quelli del Veneto, poi quelli del Mezzogiorno. Adesso arrivano da tutto il mondo. «Io certo non possono chiedere 125 euro all’anno di contributo volontario. Due anni fa ne chiesi 13 e quasi mi crocifiggevano, metà delle famiglie non pagò, e ora non chiedo più niente».
Ricchi e poveri
Le varie riforme, dice, hanno acuito il divario tra zone ricche e zone povere. «Io per fare il tempo pieno avrei bisogno di 60 insegnanti, e ne ho 58: sembra una piccola differenza, ma due in meno fanno saltare tutto. Tre anni fa avevo 108 insegnanti nei miei quattro plessi, ora ne ho cento. Stanno saltando i modelli pedagogici, presto le famiglie avvertiranno il calo del servizio». Enzo Pappalettera è il responsabile della scuola per la Cisl piemontese. Prevede una grossa delusione da parte dei lavoratori della scuola: «C’è l’idea, sbagliata, che la situazione si sia ormai assestata perché i tagli sono finiti. Ma ci si accorgerà presto che l’effetto delle “cure” degli anni scorsi si sta allargando a tutte le classi. Ad esempio, alle elementari non ci sono più i numeri per fare come prima né il tempo pieno né il tempo normale. Prima c’era un insegnante per le materie letterarie, uno per quelle scientifiche e uno per quelle artistiche. Adesso quasi tutti devono fare quasi tutto, e si perde qualità dell’insegnamento». Molte scuole dovranno accorparsi perché per mantenere l’autonomia (che vuol dire: avere un preside e un bilancio proprio) dovranno diventare istituti comprensivi di medie e di elementari, e avere almeno mille studenti. «Sarà come comporre un puzzle – dice Pappalettera -, molte scuole per accorparsi dovranno prima smembrarsi. Insomma partirà un taglia e cuci che provocherà un caos pazzesco. E ci sono solo quattro mesi di tempo per fare tutti gli accorpamenti».
Protesta continua
Sarà un anno di grandi proteste? Un nuovo Sessantotto? «Temo che più che una ribellione ci sarà un’implosione», dice Pessina, il preside del Berchet di Milano. Eppure, tagliare bisognava. La scuola era diventata, come si dice spesso, un ammortizzatore sociale. «Sì, gli sprechi c’erano – dice Pessina -, ma non sono stati tagliati gli sprechi, sono stati tagliati i servizi. Ed è un grave errore di prospettiva, perché la scuola non può essere considerata solo un capitolo di spesa». Dice che la scuola è invece il miglior investimento per il futuro di un Paese, e lo dicono un po’ tutti, ma sembra che non ci creda più nessuno.
La Stampa 11.09.11