Le dimissioni a sorpresa di Juergen Stark – rappresentante tedesco nel comitato esecutivo della Banca Centrale Europea e «padre» del «patto di stabilità» al quale è ancorato l’euro – sono il risultato di uno specifico e crescente malessere tedesco più che della solita debolezza europea. Si accompagnano a molti interrogativi sulla capacità della Germania di continuare a essere indefinitamente la «prima della classe» e sulle linee-guida della politica economica del governo tedesco e, naturalmente, complicano gravemente il panorama economico-finanziario del continente.
Sullo sfondo c’è il clamoroso taglio da parte dell’Ocse alle previsioni della crescita tedesca, pari all’incirca a zero nel secondo trimestre del 2011 con la possibilità di scendere a -1,4 per cento nel quarto trimestre. Il che può far sembrare l’Italia maestra di crescita economica e fa sospettare una verità molto scomoda: il «modello tedesco» di ripresa, che pur presenta molti lodevoli aspetti, specie nella gestione delle imprese, non sta funzionando a livello di sistema.
Del resto la «virtuosa» Germania è molto meno virtuosa di quel che sembra: come ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di tre giorni fa, se al debito pubblico si aggiungono i debiti del KfW (un ente pubblico simile al nostro vecchio Iri) il debito complessivo di Berlino sale dall’80 al 97 per cento del prodotto interno lordo. Si aggiungano l’esposizione di molte banche tedesche a titoli «difficili» – sovrani e non – e le non brillanti finanze di molti Laender, le regioni tedesche.
Di fronte al manifestarsi di queste debolezze, il liberismo tedesco che pone in cima alle priorità il pareggio del bilancio di tutti i Paesi della zona euro, non sa bene quali risposte offrire. L’Fdp, il partito liberale tedesco, sovente schierato su posizioni ultra-liberiste, è uscito letteralmente polverizzato dalle ultime elezioni regionali, svoltesi nel Meclemburgo domenica scorsa, dove è crollato dall’8,8 al 2,7 per cento, a coronamento di una stagione di sconfitte durissime in elezioni locali; queste sconfitte hanno, tra l’altro, provocato le dimissioni dalla carica di segretario generale del partito del ministro degli Esteri, Westerwelle. Se si dovesse andare oggi alle urne il partito avrebbe, secondo i sondaggi, meno del 5 per cento dei voti e nessun suo rappresentante entrerebbe nel Parlamento federale.
Le dimissioni di Stark, un economista di stampo nettamente liberista, che ha svolto tutta la sua carriera all’interno della Bundesbank, la banca centrale tedesca, vanno collocate in questo quadro difficile. Stark, «diplomatico» e gradualista, si era opposto alla ristrutturazione del debito greco e riteneva necessario che le banche che avevano aiutato la Grecia a indebitarsi l’aiutassero ora a sdebitarsi, prendendo su di sé una parte degli oneri del rimborso. Possono perciò essere lette come un’ammissione di impotenza più che come una protesta nei confronti dell’aiuto che la Banca Centrale Europea sta dando ai Paesi in difficoltà, tra cui l’Italia, con l’acquisto dei loro titoli sovrani per sostenerne la quotazione. Quest’aiuto, insomma, serve a poco e non porta ad alcuna soluzione.
Le sue dimissioni appaiono direttamente collegabili a quelle di un altro importante banchiere centrale tedesco, Axel Weber, presidente della Bundesbank che lasciò il suo incarico all’inizio di aprile, anch’egli per «motivi personali», rinunciando alla possibilità di succedere al governatore Trichet a capo della Bce e rifugiandosi a fare il professore all’Università di Chicago, cittadella (oggi forse assediata) del liberismo spinto.
Dietro a tutte queste dimissioni e alle sconfitte elettorali c’è l’incapacità del liberismo di dare risposte immediatamente positive alla crisi, ossia risposte che non passino per una riduzione ulteriore della spesa pubblica e un aumento della disoccupazione. La Germania credeva di essere immune da queste scelte scomode e adesso sa di non esserlo. Sa anche che, se lascia affondare l’Italia e la Spagna (ma neppure la Francia è in condizioni sicurissime, tanto che sta apprestando misure non troppo dissimili da quelle italiane) avrà ripercussioni importanti sulla propria economia: le conseguenze di una crisi dura di questi due Paesi sull’economia tedesca sarebbero almeno nell’ordine di grandezza di un milione di disoccupati in più. Questo sarebbe il prezzo di insegnare agli altri la «virtù finanziaria». Forse i tedeschi stanno imparando che in economia, così come nessun pasto è gratis, neppure la virtù si può praticare senza conseguenze.
Un eventuale governo rosso-verde (ossia una coalizione tra il partito socialista, altre formazioni della sinistra tedesca e i «verdi» ecologisti) che succedesse all’attuale avrebbe certo molto più a cuore il numero dei disoccupati, che cercherebbe di ridurre al minimo, che il saldo del bilancio pubblico e l’ammontare del debito pubblico.
Il compito di Mario Draghi, prossimo governatore della Banca Centrale Europea, che assumerà il suo incarico a novembre, si delinea come quello di evitare alla zona euro la caduta nel baratro che l’insistenza eccessiva sulla virtù finanziaria le ha spalancato davanti. Per questo non saranno certo sufficienti le risorse a disposizione della Banca e occorrerà agire cercando di imporre ai mercati regole più restrittive che facciano da contrappeso alle regole restrittive di finanza pubblica che gli Stati si sono autoimposti.
Per l’Italia, al momento, c’è ben poco da fare: con una manovra che ridurrà pressoché a zero la nostra già scarsissima crescita, non rimane altro che aspettare le ondate della tempesta monetaria e finanziaria, contro la quale abbiamo pochissime difese, sperare che non facciano troppi danni e diano magari una spinta decisiva al rinnovamento della nostra classe politica.
La Stampa 10.09.11