Di fronte alla estrema difficoltà di dominare la crisi che ci attanaglia, io non credo che sia fuori della realtà spostare la riflessione su un terreno più ampio e proporre una analisi meno tecnica, meno economicistica del modo distorto, senza una guida, con cui procede la mondializzazione. È in questo processo che l’Italia è immersa. E se essa rischia di pagare il prezzo più alto che è quello di un declino storico, ciò dipende molto dal fatto che la sua classe dirigente (tutta o quasi) non sa guardare al di là del proprio naso.
È il problema che ha posto di recente Alberto Melloni, lo storico del cristianesimo, che rivolgendosi alle gerarchie cattoliche le invitava a rendersi conto «che la svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce». E che ciò che è finito è «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo». E rivolgeva al cattolicesimo europeo (germanico in particolare) un appello drammatico per dire ad esso di fare molta attenzione perché se finisce la costruzione europea «finisce la pace». E, al tempo stesso, per incitarlo a mobilitarsi perché questa crisi può essere «l’anticamera del cannibalismo economico» ma può essere anche un modo di vivere «una opportunità di giustizia».
Si può irridere a un simile appello con l’argomento che il degrado italiano impone misure immediate in un orizzonte molto a breve, e di ciò sono convinto. Eppure come ci ha detto un uomo solitamente molto prudente come il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano -, è proprio di fronte a «un così angoscioso presente» che bisogna parlare «con il linguaggio della verità». Soprattutto ai giovani. Perché «solo la verità non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza». È il discorso fatto a Rimini e che mi ha molto colpito fondamentalmente per una ragione: per il modo come il Presidente si è rivolto agli italiani. Non come il Potere che comanda e rassicura ma come l’uomo politico che ha l’autorità morale per incitare il popolo a costruire una nuova Polis, a prendere in mano il proprio destino, e ricostruire il legame sociale. Questo mi ha colpito. È la Cattedra più alta che non solo chiede «una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito» ma afferma che per determinare il benessere delle persone «gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana». È che qui sta il problema delle nuove generazioni. Nel come far progredire la loro complessiva condizione umana.
Anch’io penso che questo è oggi il fatto di cui prendere coscienza. È che la crisi dell’economia ha assunto caratteri tali da rimettere in discussione la «complessiva condizione umana». Il discorso pubblico non può restare al di qua di questo livello. So bene che la crisi italiana è peculiare e grava su di essa il peso di grandi problemi irrisolti da anni, compreso il debito pubblico che si è accumulato per colpa nostra, non dei banchieri di Wall Street. E tuttavia mi sia consentito di dire senza nessuno spirito polemico che se una forza come il Pd ha ancora un problema non del tutto risolto di credibilità come alternativa di governo è perché (io credo) non riesce a esprimere una visione più ampia e più adeguata alle sfide di una crisi che davvero non è congiunturale. Tutto è molto difficile ma dopotutto sta venendo in chiaro l’illusione che il mondo possa essere governato come un grande mercato. Ma anche la sinistra deve smetterla di dare la colpa ai mercati. I mercati esistono da millenni e hanno accompagnato il cammino delle società umane e ne hanno perfino consentito la convivenza pacifica. Se le società attuali rischiano di diventare come teme il «Corriere della Sera» una appendice dei giochi di borsa è per ragioni molto profonde, tali, appunto, da richiedere una analisi meno economicista, più storica e più politica. Una analisi che cominci a prendere atto che questa crisi è così poco governabile perché è il venir meno di quella specifica architettura del mondo che si formò con la svolta neo-conservatrice, degli anni 70 del Novecento.
Il grande problema delle finanziarizzazione dell’economia si colloca qui. Non si è trattato di un cambiamento del corso economico come tanti altri. La decisione di trasformare la finanza da infrastruttura dell’economia a una industria in sé con il potere di creare senza più il controllo degli Stati il denaro con il denaro, cioè inventando e mettendo in giro una alluvione di titoli privi di contropartita di beni reali è stato un fatto epocale. Profondamente politico. Si è formata una ideologia. Tra le altre cose ha consentito alla Superpotenza, grazie al «signoraggio» del dollaro, di vivere al di sopra delle proprio risorse attirando i risparmi e consegnandoli al gioco della finanza, i cui attivi in pochi anni sono diventati 4 volte quelli della produzione reale. La conseguenza è stata una enorme produzione di rendite che la società non è in grado di pagare senza insostenibili trasferimenti di ricchezze a danno del lavoro e quindi senza pregiudicare le condizioni stesse dello sviluppo (i beni pubblici, la scuola, la giustizia, ecc.).
Nel suo piccolo è il dramma dell’Italia. Sacrifici, tagli, austerità non servono a nulla se non riparte lo sviluppo reale. Ma questo non può ripartire se non si spezza il circolo vizioso per cui il costo degli interessi sul debito che è oltre il 100 per cento del Pil supera di molto ciò che produciamo. Perciò si bruciano i mobili di famiglia, cioè le risorse reali, le condizioni stesse dello sviluppo.Qui sta la gravità della crisi e la necessità vitale del cambiamento. Ne è consapevole la nuova generazione che, giustamente, ambisce a governare il Pd? So bene che siamo molto lontani dal mondo che fu della mia generazione. Ma noi fummo una generazione vincente perché non solo battemmo la destra fascista con le armi ma imponemmo un compromesso democratico al capitalismo, e quindi la grande stagione della crescita e del benessere. La generazione che ci succedette non ha avuto lo stesso successo anche perché capì poco dell’avvento di quel nuovo «ordine» di cui ho parlato, tanto che scambiò la sua ideologia di fondo il neoliberismo per il riformismo. Fischi per fiaschi. Vedo che adesso viene avanti una nuova generazione che si candida al comando. È giusto, ed è bene.
Ma posso fare una domanda? In nome di che cosa si candidano? Dell’età o di quello che è oggi il compito storico che ci sta davanti, cioè battersi per una grande svolta che è necessaria per salvare l’Italia dal precipizio? Non è una piccola riforma spezzare il circolo vizioso che si mangia le nostre risorse (a cominciare dal futuro dei giovani) e sta rendendo questo Paese sempre più ingiusto. Il potere politico italiano lo ha già fatto nel passato. Il «miracolo economico» non fu solo opera dei mercati. La condizione è rimettere in gioco tutti quei fattori sociali che consentono agli individui di crescere e di contare. Si parla molto di etica e di politica. Ma l’eticità della politica è questo: è dar vita a una nuova condizione umana.
L’Unità 08.09.11