Espletata dalla Commissione di Garanzia del Pd la pratica disciplinare, dolorosa ma inevitabile, della sospensione di Penati, ora tocca a Bersani la parte più difficile. Che è una interpretazione non reticente – politica e non giudiziaria – della vicenda che vede protagonista il dirigente che egli aveva prescelto come capo della segreteria nazionale del partito. Tanto più che Penati era pervenuto a quell´incarico dopo lunghi anni in cui si era fatto riconoscere come il più fedele interprete nel Nord Italia del sodalizio politico – la “ditta”, come scherza lui – di cui Bersani stesso rappresenta l´evoluzione.
A subire il colpo è un´antica e rispettabile tradizione, la cui memoria storica resta impersonata soprattutto da Massimo D´Alema, contraddistinta da una forte solidarietà interna. Nessuno ha osato dare del “traditore” a Penati. La costernazione con cui taluni membri di quella comunità politica vivono l´indagine di cui è oggetto, quasi si trattasse di un incidente sul lavoro, richiama il tempo in cui il partito si considerava “altro” rispetto al sistema circostante. Dunque il caduto sul lavoro meritava comprensione quand´anche non se ne potessero giustificare in pubblico i comportamenti, resi necessari dalla durezza dello scontro politico; ma non dichiarabili.
L´ambiente in cui i reati sarebbero stati perpetrati, la cosiddetta “rete” dei funzionari che fiancheggiavano Penati nell´esercizio della sua attività, ha origini troppo familiari, militanti, per sopportare l´idea che sui giornali venga descritta come criminosa.
Tale riflesso istintivo “di corrente” per fortuna ha oggi sempre meno cittadinanza nel Pd, anche perché i suoi epigoni sono incorsi in una sequenza inesorabile di sconfitte, a cominciare dallo stesso Penati. L´impetuoso movimento partecipativo con cui Milano, per prima, si è liberata dal berlusconismo, già aveva reso obsoleta la realpolitik con cui Penati, ma anche i suoi interlocutori romani, s´illudevano di trovare spazio nella società del Nord, assumendone peraltro una falsa immagine deformata dall´ideologia. Anche la presunzione di rafforzare il proprio potere contrattuale instaurando relazioni spregiudicate fra politica e affari, appartiene alla medesima visione perdente della politica: il riformismo sacrificato alla sopravvivenza.
La tattica che si mangia gli ideali. Se pure non vi fossero dei reati, c´è la degenerazione del rapporto fra ruolo pubblico e interessi privati. Il clan prende il sopravvento sull´organismo democratico. Perfino il richiamo ai sentimenti popolari assume piuttosto stereotipi conservatori che non una sensibilità di sinistra.
Bersani ricorda bene come l´opzione “moderata” che Penati impersonava a Milano – da lui sostenuta con convinzione – fu sovvertita dagli elettori di centrosinistra nelle primarie del novembre 2010. Si verificò allora un passaggio delicato, che necessita un chiarimento. Furono respinte le dimissioni dei dirigenti locali del partito; Penati si accollò la responsabilità della sconfitta e fece ritorno a Milano, dove la sua leadership si era nel frattempo ridimensionata. E´ l´inizio di una svolta. Il Pd accetta il responso delle primarie, sostiene la candidatura di Pisapia, e consegue un importante successo elettorale, diventando la forza politica maggioritaria a Palazzo Marino.
Oggi è grazie a quella scelta felice che Bersani è in grado, pur nell´avversità dello scandalo, di cogliere un´occasione preziosa: ricominciare da Milano, la capitale del possibile cambiamento italiano, facendone anche il laboratorio di un autentico rinnovamento del partito.
E´ questo il classico caso in cui oportet ut scandala eveniant. La crisi dei vecchi poteri ambrosiani precipita, ma un´alternativa è già emersa. La sinistra del Nord sprigionatasi come antidoto al berlusconismo, e pervenuta al governo di Milano, ha fornito un modello di democrazia partecipativa e ora sperimenta la trasparenza nella pubblica amministrazione. Certo, deve ancora dimostrare di essere all´altezza, ma non sarebbe immaginabile orizzonte più favorevole nel quale lo stesso Pd ferito ritrovi la sua ragione di essere. A condizione però di fare i conti con le verità scomode rivelate dalla vicenda politica di Penati. Quali che siano le sue responsabilità giudiziarie, Penati merita infatti di venire riconosciuto per quello che è: l´espressione coerente di una politica che ha fatto il suo tempo. Il Pd non poteva fare altro che sospenderlo. Ma Bersani sa meglio di chiunque altro che non è una mela marcia.
La Repubblica 07.09.11