Un governo all’altezza delle sfide drammatiche che si presentano, non crea le emergenze, le scongiura con ogni mezzo. In una situazione di crisi, che rischia di lasciare aperte sofferenze di lungo periodo, il governo dovrebbe ricercare le condizioni della coesione sociale.Perché ritrovare un legame di cittadinanza è una risposta, la più importante, alla catastrofe incombente. Il teorema Sacconi è invece il manifesto di un governo che fa della irresponsabilità e della lacerazione sociale il proprio programma fondamentale. Tutto è cambiato in una manovra ballerina. Tutto, tranne l’aggressione al sindacato, alla cooperazione e alla contrattazione collettiva. Quando cade ogni credibilità del sistema Paese, assediato da investitori scettici dinanzi a un esecutivo screditato ma irremovibile, il governo avrebbe il compito prioritario di tracciare un patto sociale solido che renda sopportabili i sacrifici necessari, sostenga la prospettiva di una ripresa e prepari le condizioni della crescita. La destrutturazione completa delle relazioni sociali e la mortificazione del sindacato non possono essere spacciate come delle misure strutturali indispensabili per la salvezza del Paese. Quando il disagio sociale galoppa sfrenato, la politica non fabbrica le divisioni, cerca al contrario di governarle con prove di dialogo. Su queste basi nacque l’accordo del 28 giugno che contribuì a placare i mercati. Il governo ha però rotto quel clima positivo perché ha ritenuto intollerabile che dalle parti sociali si cominciasse a pensare al tempo del dopo Berlusconi. L’articolo 8 appiccicato nella manovra non serve certo a fare cassa, ad abbattere il debito, a restituire competitività all’economia. No, l’articolo 8 ha un solo obiettivo ed è politico: impedire la costruzione di una coalizione sociale ampia per progettare una nuova fase della Repubblica. Il nemico principale è certo il sindacato più grande ma in fondo è in corso anche una resa dei conti dentro le classi dirigenti dell’economia che vorrebbero liberarsi di un governo inadeguato che ha prodotto una catastrofe immane ma non ne hanno la forza politica e il coraggio culturale. Il governo, facendo dell’accordo del 28 giugno pura carta straccia, colpisce anche l’impresa e i suoi timidi segnali di commiato dal berlusconismo. Il problema reale dell’impresa, di quella dinamica non di quella corsara, illegale o sommersa, non è di avere mani libere e licenziamenti più facili. L’Italia ha ormai una flessibilità da Paese in via di sviluppo e i suoi salari sono da nazione arretrata. Per nascondere il proprio fallimento come manager che innova nel prodotto e conquista i mercati, Marchionne si è buttato per primo nello scontro sociale. Difficile passare alla storia come manager dell’innovazione tecnica, molto più facile proporsi come un architetto di relazioni sindacali regressive. Però, anche con il modello Pomigliano, le macchine restano invendute perché il lavoro non compra, non ha più potere d’acquisto per farlo. Questa è la sostanza vera della crisi. È la questione sociale rimossa del lavoro che ha perso un enorme spazio rispetto al profitto e quindi induce l’economia alla recessione. L’ideologia della manovra, che si esprime in una formula giuridica insulsa, il contratto di prossimità, servirà certo a comprimere ancor più i diritti dei lavoratori, ad impoverirli. Ma il regime dell’insicurezza e della sorveglianza non garantisce affatto la crescita e neanche il controllo sociale auspicato. È facile prevedere dove porterà l’ottuso neomedievalismo giuridico del governo. Senza il sindacato generale e senza la forma della legge, si aprirà una giungla con uno spirito cieco di rivolta e sabotaggio che renderà ingestibile le relazioni nei luoghi di lavoro. Non si è mai visto un governo che abbandona i soggetti e gli istituti della società civile ed edifica una giungla per amore insano dell’emergenza.
L’Unità 07.09.11