Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione.
I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale – si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale – possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese – si noti bene – le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro”.
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta – almento 10 punti in vent´anni – è una delle maggiori cause della crisi.
La Repubblica 05.09.11
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“Colpito il lavoro”, di Luigi Mariucci
Perché mai, nell’ambito di una ennesima manovra finanziaria che dovrebbe avere di mira le misure di contenimento del debito pubblico, il taglio degli sprechi e la lotta all’evasione, il moribondo governo in carica insiste nel proporre una norma che, in sostanza, fa tabula rasa delle tutele lavoristi che lasciate in eredità da mezzo se- colo di tradizione riformista? Mi riferisco all’articolo 8, secondo il qua- le con accordi aziendali stipulati da non si sa chi si potrebbero derogare tutte le norme fondamentali di tutela del lavo- ro: dalla disciplina delle mansioni a quella dell’inquadramento professionale, dall’orario di lavoro ai licenziamenti. Si tratta di una proposta demenziale e avventurista, totalmente priva di senso razionale. Basti dire che se fosse vera una relazione univoca tra libertà di licenziamento e occupazione gli Stati Uniti, dove vige in generale il principio dell’«employment at will» (vale a dire della libertà incondizionata di licenzia- mento) dovrebbero essere il Paese della piena occupazione. Lì invece ci sono 19 milioni di disoccupati. L’abrogazione delle norme cruciali dello Statuto dei lavoratori non ha quindi nulla a che fare con le misure di cui si discute ai fini di risanamento del debito pubblico e di controllo della spesa. Ha che fare inve- ce con una specifica intenzione politica sciagurata, impersonata in particolare dal ministro del lavoro in carica, il quale si è scientificamente attivato al fine di dividere le forze sociali, e in particolare di isolare la Cgil. Questa perniciosa attività rappresenta un paradigma negati- vo tanto più se confrontato con ministri del lavoro che rispondevano ai nomi di Giacomo Brodolini, Carlo Donat Cattin, Gino Giugni. Nel merito, si può osservare che l’illegittimità costituzionale della norma in parola è evidente, sotto molteplici profili. Anzitutto in riferimento agli articoli 3 e 39 della Costituzione. La legge ordina- ria non può infatti attribuire efficacia «erga omnes» ai contratti aziendali se non attraverso i criteri previsti dalla seconda parte dell’articolo 39. Né può essere ammissibile che con legge ordina- ria si disponga in materia di efficacia dei contratti collettivi. Tanto meno è legittimo con legge disporre una sanatoria ex post di accordi aziendali (come quelli Fiat) «ove votati dalla maggioranza dei lavoratori». Il ministro in carica cita a ogni pie’ sospinto, a sostegno delle sue claudicanti tesi, impropriamente e ingiustamente, il nome di Marco Biagi. Avendolo conosciuto so- no convinto che Marco gli avrebbe impedito di dire almeno tali castronerie.
L’Unità 05.09.11
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Rischiano i dipendenti delle imprese più piccole
Pietro Ichino, giuslavorista e parlamentare Pd, da sempre un nemico giurato del dualismo nel mercato del lavoro provocato dall’articolo 18 tanto che per neutralizzarlo sostiene da anni la necessità di introdurre il “contratto unico”, ha molti dubbi sull’articolo 8.
Cosa cambia, concretamente?
«La nuova versione approvata ieri dalla commissione Bilancio perfeziona per alcuni aspetti la formulazione originaria, ma la sostanza rimane quella: la riforma del diritto del lavoro viene delegata alla contrattazione aziendale».
Non si rischia una giungla contrattuale?
«Direi piuttosto che si rischia un aggravamento del dualismo, nel nostro tessuto produttivo, tra i lavoratori regolari delle aziende medio-grandi, per i quali presumibilmente non cambierà nulla, e i poco o per nulla protetti delle imprese più piccole, che rischieranno di perdere anche il poco che hanno».
Quali sono i limiti di intervento?
«Ora è stato esplicitato il limite dei principi costituzionali e dei vincoli internazionali ed europei. Ma gran parte del nostro diritto del lavoro non ne è coperto: per esempio l’articolo 18 dello Statuto, in materia di licenziamenti».
È vero che l’articolo 18 muore?
«Non mi sembra probabile che nelle imprese medio-grandi le rappresentanze sindacali legate ai sindacati confederali saranno disposte a rinunciare a questa protezione. Questo potrà accadere più facilmente nell’area delle imprese più piccole, o comunque oggi non sindacalizzate. Per questo parlavo del rischio di un aggravamento del dualismo attuale del nostro tessuto produttivo.
Ma la Bce non ci chiede proprio il superamento del dualismo tra chi è protetto contro il licenziamento e i milioni di precari?
«Sì; e ci chiede anche, nell’area del lavoro regolare, il passaggio dalla vecchia tecnica protettiva, consistente nell’ingessatura del posto di lavoro, a una protezione nuova del lavoratore, costituita dalla garanzia economica e professionale nel mercato del lavoro. È evidente che la contrattazione aziendale, abbandonata completamente a se stessa, senza neppure qualche linea-guida, non è in grado di produrre una riforma di questo genere e di questa complessità.
Secondo Susanna Camusso è un attentato alla Costituzione.
«Non parlerei tanto di attentato alla Costituzione, che è formalmente salvaguardata nella nuova formulazione della norma, quanto piuttosto di una scelta politica profondamente sbagliata: quella di delegare alla contrattazione aziendale una riforma che invece richiede un disegno organico e un legislatore che se ne assuma per intero la responsabilità».
Non è una sconfessione dell’accordo interconfederale di giugno?
«Sicuramente lo ignora, anzi sembra puntare a scardinarlo. Non è stato ancora ratificato dalla Cgil. Ora, in conseguenza di questo intervento legislativo, vedo il rischio che la ratifica possa saltare. Ma forse è proprio quello che Sacconi vuole».
La Stampa 05.09.11