Dove eravate alla vigilia di Ferragosto, quando il governo Berlusconi annunciò ufficialmente la manovra “lacrime e sangue”, imperniata sul cosiddetto “contributo di solidarietà”, la supertassa per i contribuenti con redditi superiori a 90 mila e 150 mila euro? In città o in vacanza? Al mare, ai monti o in campagna? In Italia o all´estero? Allora fu lo stesso presidente del Consiglio a dire, in tono accorato, che quel provvedimento gli faceva “sanguinare il cuore”, ma era inevitabile. Sono passate due settimane o poco più, siamo tornati al lavoro, la manovra è stata rovesciata più volte come un pedalino e adesso è lo stesso Berlusconi ad annunciare trionfante “abbiamo tolto le mani dalle tasche degli italiani”.
Che capolavoro di mistificazione politica e mediatica! A parte il fatto che la supertassa sopravviverà – a quanto pare – per gli statali e i pensionati, cioè per due categorie che per status professionale o anagrafico si possono considerare più deboli, la verità è che il governo non mette le mani in tasca agli italiani per il semplice motivo che non vi troverebbe più niente: le mani le ha già messe infatti sui nostri stipendi o salari; sulle nostre pensioni, appunto; sui vari servizi che dovranno diminuire inevitabilmente le prestazioni a causa dei tagli agli enti locali, aumentando di conseguenza il costo della vita per ognuno di noi.
Siamo, insomma, al vecchio gioco delle tre carte. Da un lato, la grancassa del governo annuncia nuove tasse, la pubblicazione dei redditi su Internet o addirittura il carcere per gli evasori oltre i tre milioni di euro (e quanti potranno mai essere?). Dall´altro, il capo del medesimo governo proclama di aver “tolto” le mani dalle tasche dei cittadini, mentre si apprende che negli ultimi anni la pressione fiscale è ulteriormente salita di due punti e ormai sfiora il 50 per cento.
Più che da “lacrime e sangue”, dunque, questa è una manovra da fumo negli occhi. Priva di interventi strutturali in grado di ridurre il nostro mostruoso debito pubblico e soprattutto di misure per la crescita e lo sviluppo. Una manovra da specchietti per le allodole che ricorda quello spot televisivo in cui Cristoforo Colombo sbarca fra gli indigeni d´America e scambia il suo cellulare con uno scrigno colmo d´oro.
Di tutto però si sente discutere, di vendere la Rai, le caserme o perfino la Valle dei Templi, tranne che delle frequenze televisive, tanto preziose per l´azienda del presidente del Consiglio. Eppure, l´etere è come l´acqua: un bene pubblico, un bene comune che appartiene a tutti i cittadini. Essenziale per il pluralismo dell´informazione e quindi per la vita democratica. Così l´emendamento presentato al Senato dal Partito democratico per mettere all´asta le frequenze liberate nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale, di cui abbiamo parlato qui nei giorni scorsi, rischia di finire nel frullatore parlamentare dove si prepara la maionese impazzita di questa manovra. Se ne potrebbero ricavare forse da uno a tre miliardi di euro, per fare cassa e rinsanguare i conti dello Stato. Ma la maggioranza del partito-azienda preferisce regalare le frequenze ai “signori dell´etere” e in primo luogo al proprio presidente-padrone.
A suo tempo, fu proprio l´ex sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, promosso poi a ministro dello Sviluppo economico, a concordare con la Commissione europea il metodo del “beauty contest” (concorso di bellezza) per assegnare le nuove frequenze televisive agli operatori più “belli”, cioè più ricchi e più forti. E il 7 aprile del 2009 l´Autorità italiana sulle Comunicazioni, presieduta da Corrado Calabrò, decise a maggioranza con due voti contrari di adottare questo meccanismo, considerando la “doverosità” (testuale) della delibera per evitare la procedura d´infrazione aperta da Bruxelles contro l´Italia sul caos dell´etere.
Ormai, su richiesta della stessa Commissione europea, quel criterio è diventato legge dello Stato. Ma nulla impedisce evidentemente che, nell´attuale situazione di emergenza economica e finanziaria, il testo venga modificato o magari corretto. E anche al di là dell´asta al rilancio proposta ora dal Pd per assegnare queste frequenze al miglior offerente, sarebbe opportuno comunque aggiornare i canoni irrisori delle vecchie concessioni in scadenza l´anno prossimo, fermi ancora all´1 per cento del fatturato di ciascuna azienda televisiva.
Questo è davvero un modo per togliere le mani dalle tasche dei cittadini, senza metterle nelle casse dello Stato. Per non fare profitti privati a carico delle finanze pubbliche. Per non lucrare sull´etere che, come l´acqua pubblica, è un altro bene comune fondamentale.
La Repubblica 03.09.11