Gli uomini del fare dicono di provvedere alle necessità del giorno secondo il bisogno, ma non è questo il modo per conservare alla democrazia libertà e giustizia. Gli uomini del fare dicono di rispondere all´emergenza, ma senza una coerenza istituzionale si finisce solo per favorire i ladri e i prepotenti. La famosa idea liberale per cui bastava una stretta di mano per suggellare un contratto non ha più alcun significato. Tutti rubano. Da mesi le procure d´Italia scavano nella corruzione, scovano nel fango più lercio e immondo tutti i partiti, nessuno escluso: la P3, la P4, la casa di Scajola, le cassette di sicurezza di Milanese deus ex machina di Tremonti, le tangenti all´ex presidente pd della Provincia di Milano Filippo Penati e poi avventizi del sistema criminale come Tarantini e Lavitola. Per non parlare dei processi a Berlusconi.
Faccio il cronista da più di sessanta anni, osservo la gente nei suoi vizi e nelle sue virtù ma c´è una domanda a cui non ho ancora trovato risposta: perché si ruba? Perché rubavano nel regno e poi nella prima e nella seconda repubblica, perché rubava il ricchissimo Raul Gardini? Alla morte di Serafino Ferruzzi, miliardario di Ravenna, aveva ereditato una fortuna, aveva proprietà agricole, navi, treni, aerei, fattorie e allevamenti in Patagonia, ma non gli bastavano, diventò padrone della Montedison, una grande industria che fatturava all´estero il sessanta per cento, un potentato, e la depredò. Dell´industria non gl´importava niente, era un commerciante. Insomma, in pochi anni sono riusciti a fare un buco di trentunmila miliardi di lire. Non si era mai visto nel mondo un buco simile, il precedente della Chrysler era stato di sedicimila. Soldi bruciati come? In spese folli per Radio Telemontecarlo, per la regata del Moro di Venezia, per squadre di pallacanestro o di volley, per i componenti del clan, una cinquantina di persone, per auto Ferrari e per barche da trenta metri. Poveracci di questo mondo, non lo sapete che si fa presto a spendere? Rubava Duilio Poggiolini, direttore del servizio farmaceutico pubblico, e rubava il direttore dei telefoni di stato, Parrella. Non bruscolini: settanta e più miliardi di tangenti dalle industrie a cui davano una mano. Il sistema ladro seleziona ladri sempre più esperti. Anni fa un´inchiesta nel provveditorato delle opere pubbliche di Milano stabilì che 29 impiegati su 30 erano corrotti. La corruzione universale, onnicomprensiva è un cane che si morde la coda.
Tempo fa un giornale ha fatto l´elenco delle malversazioni compiute da politici e affaristi nell´ultimo mese: occupava mezza pagina. Siamo tornati a “Mani pulite”, al complotto dei giudici comunisti per affossare Bettino Craxi, l´uomo della Milano da bere? Diciotto anni fa andai al palazzo di giustizia di Milano per sapere cosa ne pensasse il procuratore Francesco Saverio Borrelli. L´ufficio del procuratore era immenso, perché nella burocrazia italiana il grado elevato si misura a metri quadrati di tavolo e a metri cubi di stanza. Trovai un signore piccolo di statura ma con la schiena dritta, uno che senza alzare la voce mi spiegava il perché di Mani pulite, allora e non prima. «Vede, i segni della corruzione dilagante c´erano, alcune aziende erano fallite sotto il peso delle tangenti, delle “dazioni”, come le chiamavano. E c´era stata la “Duomo connection” che rivelava la complicità fra la politica e l´affarismo. Eppure abbiamo aspettato a intervenire perché le voci, gli indizi, le indagini, le intercettazioni telefoniche devono comporsi, assumere una chiarezza inequivocabile. Deve cioè accendersi la luce dell´evidenza e dell´intollerabile perché l´intervento della giustizia sia efficace e non più rinviabile, perché le indagini mordano i corrotti e non siano uno spreco di buoni propositi. Io mi sono convinto che Mani pulite sia stata possibile perché ci fu un lento ma progressivo recupero di valori, la consapevolezza di vivere in una società ingiusta, la stanchezza di dover subire dovunque e comunque la disonestà imperante».
A diciotto anni da quell´incontro molti di noi si chiedono se la luce stia per accendersi, se stiamo finalmente per uscire dal tunnel, da questa illegalità “gelatinosa”, come la chiamano. Il procuratore Borrelli rispose a queste domande con un´esortazione kantiana: “resistere, resistere, resistere”. Un´esortazione che può sembrare puritana ma che è semplicemente un invito al ritorno della ragione, a uscire dalla ripetizione degli errori, dall´anarchia delle umane avidità. Leggendo l´elenco dei più recenti latrocini, ciò che colpisce di più è che spesso i corrotti non sanno bene perché lo sono, perché hanno accettato di esserlo. È un´alienazione che già impressionò i magistrati che si occuparono di “Mani pulite”: la corruzione che diventa un obbligo inevitabile, come confessa il consigliere comunale di Milano Pennisi, che si fa arrestare mentre intasca cinquemila euro: «Mi sono rovinato da solo». E un ricordo di diciotto anni fa, il giudice Piercamillo Davigo che racconta: «L´altro giorno ho interrogato un giovane impiegato del municipio di Vigevano; apro l´incartamento e leggo che ha intascato una tangente di poche migliaia di lire. Scusi – gli dico – ma vorrebbe spiegarmi perché uno come lei si è giocato la reputazione e la vita per poche lire?. Ero obbligato, mi risponde, quei pochi soldi me li ha dati il mio capo ufficio, se gli dicevo di no alla prima occasione mi licenziava».
C´è una contesa filosofica dietro “Mani pulite” come dietro lo scandalo della protezione civile e dietro gli ultimi episodi di corruzione e malaffare politico. Fra quanti pensano che la distruzione-creazione del libero mercato, o se preferite la “lotta per la vita” sia il prezzo della sopravvivenza, e quanti invece che il ritorno alla ragione sia l´unica sopravvivenza possibile. “Rubo dunque sono”. La delinquenza dilagante e ossessiva non è solo avidità, è anche voglia di “farla franca”, di essere più furbi, più disinvolti, più pronti degli altri, come ha ampiamente dimostrato l´ex ministro Scajola. Un altro, Guido Bertolaso nella sua difesa ha colto bene questo aspetto: «Mi è stato chiesto di intervenire subito, in fretta, per rispondere subito alla richiesta di protezione. Ma la fretta non va d´accordo con i controlli, con le giuste prudenze». E si ritorna ai rischi e agli errori del populismo, della politica del fare, della ricerca del consenso a ogni costo. L´avidità è grande, ma la voglia di “farla franca” è incontenibile. Ogni giorno la televisione e i giornali danno notizia dell´arresto di un boss mafioso: cambia il nome ma la storia è sempre la stessa, sempre la voglia di “farla franca”. Tutti i ladri convinti di aver trovato il modo per essere più furbi delle guardie, tutti con il covo sotterraneo convinti di essere più furbi dei carabinieri. Non è vero che il delitto paghi, è vero che il delitto piace, che al “rubo dunque sono”, non si resiste.
La Repubblica 03.08.11