Quanti ne rimarranno (politicamente indenni) si chiederebbe Agatha Christie? Dieci piccoli ministri camminano sul filo del rasoio. È letale per le carriere, oltre che accidentata per milioni di italiani, questa fase della legislatura. I più potenti, i più duri, i più promettenti crollano. Scajola inciampa, e non una sola volta, sulla casa. Tremonti anche, si potrebbe dire in estrema sintesi. Adesso è il momentaccio di Maurizio Sacconi, architetto del «pastrocchio» sul riscatto della laurea che ha fatto balenare la «rivolta sociale» e lo ha trasformato da ex enfant prodige della politica in «dilettante allo sbaraglio». Tradito dal fuoco amico, praticamente fraterno: Uil e Cisl, sondate sulla norma ma crocifisse dalla fatidica “base”, hanno voltato la faccia. E il ministro del Lavoro ha perso la sua. Paga dazio un volto duro del berlusconismo: Sacconi sta ai lavoratori come Brunetta ai dipendenti pubblici come Gelmini agli studenti. Rapporti tormentati, zero cordialità, più che un segmento sociale di riferimento pare ci vedano un avversario da rieducare. Con Renato, veneto amico di una vita, hanno in comune la militanza socialista cominciata sotto l’ala di De Michelis e finita a destra, l’attivismo da «fantuttoni» (copyright Merlo) e le tesi oltranziste. I ragazzi? «Sono giovani-vecchi ma è colpa delle famiglie». La soluzione alla disoccupazione? «Accompagnamento al nuovo lavoro: chi rifiuta perde i sussidi». Classe ‘50, nativo di Conegliano, figlio di un funzionario di banca e di una maestra, deputato 29enne nel ‘79, un salto in un’agenzia Onu, forzista da un decennio, Sacconi è una certezza: passano i decenni ma resta granitica la sua avversità alla deriva debosciata post-sessantottina, alla decadente egemonia culturale della sinistra, all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che zavorra l’altrimenti florida economia italiana. Oggetto, s’immagina, di conversazioni con il premier che ha la stessa rassicurante idiosincrasia: mentre mondo e Paese vanno a pezzi, loro riesumano il pericolo rosso; mentre la Fiat sprofonda in Borsa, rievocano l’«aristocrazia operaia»n Fiom. Cresce vertiginosamente, in compenso, la sua percezione della fede: in linea con la Chiesa più intransigente sul caso Eluana, accorato firmatario con Lupi e Quagliariello della “lettera ai cattolici” sulla presunzione di innocenza (non di moralità: folgorati sì ma scemi no) di Silvio. Uomo cortese e preciso ma facile a perdere le staffe, accentratore quasi maniacale, diffidente quanto il suo leader, Sacconi da tre anni guida il dicastero del Welfare. Si era fatto le ossa come sottosegretario di Maroni e non ha preso bene lo scorporo della Salute, andata a Fazio con sottosegretarie al seguito: l’animalista Martini e la pia Roccella, che lamentavano scarsa valorizzazione. Giuslavorista di formazione, docente a contratto, il nome di Sacconi è legato a quello di Marco Biagi, ucciso dalle Br, ed alle polemiche con la Cgil cofferatiana. Cosa farà “Maurizio” da grande, si chiedono nel PdL balcanizzato? In perenne conflitto carsico con Tremonti, si è galvanizzato vedendo il suo nome nel toto-successori. Amico di Bonanni, ha confidato nella “diplomazia bianca” per superare lo scoglio impervio della manovra. Ha sbagliato: esce perdente. Ma i nemici vigilino. L’uomo è, come la manovra, alla quarta vita. Sopravvissuto al crollo di un sistema dopo Tangentopoli, al tramonto della sua linea falco-apocalittico sull’Alitalia, al protervo quanto vano accanimento per impedire l’esecuzione della sentenza Englaro. Lì sconfitto – che paradosso – non da sindacalisti di stampo sovietico o precari cialtroni bensì da un pugno di socialisti. Che stava dall’altra parte.
L’Unità 02.08.11