Caos previdenza. La “decisione di Arcore” sulle pensioni di anzianità rischia di avere un cammino tortuoso in Parlamento, con i maldipancia anche nel Pdl oltreché nella Lega, ed è destinata a provocare subito dopo un´ondata di cause davanti ai tribunali. Da ieri sono al lavoro – costretti a una vera gimcana tra le norme – i tecnici della Ragioneria e gli uffici legislativi del Lavoro e dell´Economia per preparare il testo che dovrà essere inserito nel maxi emendamento del governo. Obiettivo: rendere compatibile con l´attuale normativa generale, e forse con la stessa Costituzione, l´idea di non considerare i riscatti previdenziali effettuati (onerosamente) per la laurea e quelli (gratuiti) per il servizio militare ai fini del calcolo dei 40 anni di contributi per l´accesso alla pensione di anzianità indipendentemente dall´età anagrafica. Di fatto un aumento (da uno a quattro, cinque anni e anche più) dell´età effettiva di pensionamento. Interessati dagli 80 ai 100-130 mila lavoratori. Perlopiù uomini.
Risparmi ma anche minori entrate
Attraverso questa misura il governo calcola di risparmiare 500 milioni il primo anno (il 2013), un miliardo l´anno successivo e tra 1,2 miliardi e 1,5 a regime. Nello stesso tempo, però, bisognerà stimare le minori entrate visto che più nessuno chiederà il riscatto del periodo universitario (la leva non è più obbligatoria) dal momento che non ci sarà più alcuna convenienza. La ragione vera, infatti, per cui si chiede il riscatto è quella di andare in pensione prima dell´età di pensionamento di vecchiaia (65 per gli uomini e 60 per le donne).
Nel sistema retributivo
la pensione non sale dopo i 40 anni
Ma la norma è piena di incongruenze. Il comunicato dell´altroieri di Palazzo Chigi spiegava che gli anni riscatti sarebbero comunque stati considerati ai fini del calcolo dell´importo del futuro assegno pensionistico. Ma questo può essere valido nel sistema contributivo. Il punto è che chi va in pensione con 40 anni di contributi ci va con il metodo retributivo ricevendo, più o meno, l´80 per cento delle media delle retribuzioni degli ultimi dieci anni. Arrivati al massimo, versare altri contributi non serve assolutamente a nulla. E chi ha versato perderà i soldi? Glieli ridarà lo Stato? Ancora non si sa. Ma di certo il problema c´è, visto che ieri il relatore della manovra, Antonio Azzollini, si è precipitato a dire «che si lavora ad una norma transitoria per tutelare chi ha già avviato il processo di riscatto del servizio militare e degli anni di università». Difficile pensare che possano essere esclusi dalla norma. Probabile, allora, che si pensi a una forma di restituzione del riscatto attraverso i futuri ratei pensionistici.
Effetti paradossali: chi va
in pensione d´anzianità e chi no
C´è anche un altro problema. La sterilizzazione dei riscatti rischia di provocare effetti paradossali. Il nostro è un sistema in transizione: un po´ è ancora retributivo, per il resto è contributivo. Il confine venne fissato dalla “riforma Dini”: chi al 31 dicembre del 1995 aveva più di 18 anni di contributi restava totalmente nelle vecchie regole, gli altri pro quota passavano al contributivo. Va da sé che in molti avranno “utilizzato” i riscatti per rimanere nel più vantaggioso sistema retributivo. E ora?
Paradosso per paradosso, ce n´è almeno anche un altro. Uno dei più recenti aggiustamenti della riforma Dini riguarda il meccanismo delle quote (somma tra età anagrafica e anni di contribuzione) attraverso il quale gradualmente si superano le pensioni di anzianità. Attualmente siamo a quota 96 (60-36). Ora, chi raggiungerà la “quota” anche per effetto dei riscatti potrà andare in pensione, chi invece avrà toccato i 40 anni di versamenti ma non ancora compiuto i 60 anni, resterà al lavoro.
Si “rottamano” ancora
gli statali dopo 40 anni?
E come si concilia la nuova proposta del governo con quella della manovra dello scorso anno che prevedeva la possibilità per le amministrazioni pubbliche di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente che avesse raggiunto i 40 di contributi? In migliaia rischiano di restare
senza pensione e stipendio
In tante aziende (Alitalia, Fiat, Finmeccanica, Telecom, banche, Ferrovie, Poste) si sono fatti accordi di ristrutturazione con centinaia di migliaia di lavoratori finiti in mobilità lunga in attesa della pensione di anzianità sulla base dei 40 anni di versamenti. Ora rischiano, senza più uno stipendio, di rimanere anche senza pensione.
La Repubblica 31.08.11
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“Caccia a 5 miliardi, rischio manovra-ter”, di Valentina Conte
Incerto il gettito della lotta all´elusione e della stretta sulle coop. Mancano incassi certi come il contributo di solidarietà e si devono tagliare 2 miliardi agli enti locali. Sui saldi finali pesano l´incognita crescita e l´aumento degli interessi sui titoli di Stato.
I conti non tornano. Quelli dell´economia globale, dell´Europa, dell´Italia, della manovra bis. L´esercizio politico di spostare le poste come birilli ha forse preservato il consenso dei rispettivi elettorati, meno i saldi di un provvedimento d´urgenza richiesto dalla Bce per anticipare al 2013 il pareggio di bilancio. Il rischio è che, a breve, quei conti si debbano riaprire per un terzo, doloroso, intervento. Tre manovre in tre mesi, l´Italia come la Grecia, è il pericolo da scongiurare a tutti i costi.
I sintomi, però, ci sono tutti. Il vertice di Arcore di lunedì ha, di fatto, aperto un primo “buco”, stimato dall´opposizione ma anche da studiosi ed economisti in almeno 5 miliardi: tolto il contributo di solidarietà (3,8 miliardi di euro in tre anni), concessi 2 miliardi di minori tagli agli enti locali (diventano 3 se uno si storna dall´introito della Robin Hood tax), le compensazioni paiono evanescenti. La stretta sulle società di comodo, la scure sulle Coop, il gettito dell´evasione passato in gestione ai Comuni, sul pallottoliere della contabilità pubblica per ora valgono zero. Così come le riforme costituzionali (abolizione delle Province e dimezzamento dei parlamentari). Poi i dubbi di costituzionalità aperti dal caso supertassa, rimasta per pensionati e statali, e dal caso pensioni, che comunque forniranno introiti solo a partire dal 2013 (500 milioni), fanno pensare ad un´altra falla da riempire. Infine, la delega fiscale da 20 miliardi, corposa ma ancora nebulosa, che nasconde l´aumento dell´Iva.
Poi c´è il contorno. Fatto di stime sulla crescita in forte ribasso (lo diceva lunedì il Fondo monetario internazionale per il mondo e l´Italia, ieri l´Istat e anche la Banca d´Italia). Interessi sui titoli di Stato italiani che lievitano a vista d´occhio (gli spread con i Bund tedeschi hanno ripreso a correre). Numeri che i mercati sanno leggere benissimo e che, inevitabilmente, cambieranno le condizioni italiane per aver deficit zero nel 2013. «Le stime sul Pil dell´Fmi possono anche peggiorare, perché calcolate senza tenere ancora in conto l´effetto comunque depressivo delle due manovre estive», dice Mario Baldassarri, economista e senatore Fli. «Al momento la minore crescita, da qui al 2013, è stimata in due punti in meno. Ovvero un punto in più di deficit. Ovvero 15 miliardi nel 2013. Il pareggio, nei numeri non c´è più. Servirà una manovra ter da 25-30 miliardi che non ci possiamo però permettere. A che titolo la Bce continuerà a comprare i nostri titoli?». Tra una ventina di giorni il governo presenterà il nuovo Def, con il Pil rivisto. «Il punto è correggere i conti, subito, ma con misure strutturali», dice Nicola Rossi, economista, gruppo misto. «Questa manovra bis, così sbilanciata sulle entrate, ne avvicina una terza. Sì, sembra proprio l´iter greco».
La Repubblica 31.08.11