C’ è tanta verità nella asserzione di Machiavelli per cui al politico non basta conquistare il potere per sfiorare la gloria. Berlusconi a Palazzo Chigi c’è rimasto a lungo, più di Giolitti che avviò il decollo industriale e gestì la prima modernizzazione del paese. E anche più di De Gasperi che governò la ricostruzione postbellica e pilotò l’ancoraggio europeo. Eppure, malgrado un decennio di esercizio del potere, neanche Giuliano Ferrara, che ora supplica un giudizio equanime sul Cavaliere, lo annovererebbe sul serio tra i grandi statisti. Quelli di Berlusconi sono stati anni di profonda regressione politica e di smarrimento civile. Relazioni internazionali all’insegna dell’improvvisazione.
Di politiche economiche ed industriali neanche l’ombra. Solo pedestri tentativi di introduzione di reati a sfondo etnico e prove maldestre di riscrittura del codice su misura dell’azienda corsara. Il federalismo fiscale, partorito a sostegno di un asse d’acciaio con Bossi, appare poco più di una vaga retorica. Eppure il decennio berlusconiano non va archiviato come una semplice escrescenza malata imputabile alla carenza personale di un uomo debole nella carne e braccato dalla giustizia. Anche senza le depravazioni dei sensi, e con una fedina penale immacolata, l’esperimento politico del Cavaliere avrebbe comunque fatto fiasco perché minato nel profondo da impossibilità sistemiche che alla lunga si rivelano per tutti invalicabili.
Non è possibile, in altre parole, governare una società complessa nelle sue strutture materiali e civili e assai differenziata nei suoi poteri con un forzato ritorno al semplice retto da un governo personale che contamina pubblico e privato, certezza del diritto e convenienze economiche. Quello di Berlusconi è un modello post-democratico che ha scatenato un effetto contagio in tanti paesi dell’est. In quei posti di facile conquista, il Cavaliere è ancora un mito per ogni oligarca che si sazia nella grande abbuffata di potere, denaro e calcio. Almeno nella vecchia Europa, Berlusconi è percepito come una merce avariata. Un politico di così basso profilo ha però, a suo modo, fatto epoca. Il suo partito personale ha trovato schiere di imitatori.
Speculare al suo modello carismatico-discendente di partito personale abitante nel virtuale, è il partito carismatico ascendente della Lega, ancorato nel microterritorio e costruito anch’esso attorno al potere irresistibile di una persona. Ma anche il più antiberlusconiano dei partiti, quello abbozzato da Di Pietro, è solo un ruspante partito personale a debole struttura democratica e a elevata densità di migrazione dei suoi parlamentari verso le sponde accoglienti dell’odiato Cavaliere. Per non parlare della creatura di Vendola che trasuda una ipertrofia dell’io al punto da inserire il nome del capo nel simbolo e il volto del leader nelle tessere. Anche la forma del partito liquido era in origine contaminata dal mito di un capo abile nella narrazione e privo di macchine organizzate.
Nel congedarsi da Berlusconi occorre ben isolare il tratto sistemico del suo esperimento fallito che rinvia alla potenza distruttiva della pretesa di prospettare un capitalismo che si autogoverna con imprenditori saliti al potere e fa a meno della mediazione politica. Berlusconi naufraga non per le deviazioni della carne ma per la potenza smisurata dell’imprenditore che prende in appalto lo Stato. A inizio secolo Weber aveva non a caso ostruito ogni discesa in campo del capitalista: «Un imprenditore, a causa del lavoro per la sua impresa, è specificamente indisponibile per le crescenti esigenze di un lavoro politico regolare». Per questo un nuovo partito azienda targato Fiat e depurato dal Bunga bunga sarebbe non meno catastrofico dell’antico partito azienda siglato Fininvest.
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da www.unita.it
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