È arrivato il momento di affrontare la questione». Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, nonché docente di Giustizia costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano pensa che sì, sia davvero arrivato il momento di mettere fine alla possibilità per i parlamentari di accumulare altri redditi all’indennità da onorevoli. E non soltanto per una questione morale. Presidente, non solo questione morale o etica. Ma?
«Proviamo a ricostruire da dove nasce l’indennità parlamentare.
Nasce per motivi di uguaglianza: per consentire a chi non ha altri redditi che gli diano mezzi di sostentamento di impegnarsi a tempo pieno nelle funzioni pubbliche per cui viene eletto. Quando le cariche pubbliche erano gratuite potevano svolgerle soltanto le persone che vivevano di rendita. L’indennità non è altro che questo, nonè uno stipendio, serve a rendere indenne dal danno economico chi si mette a disposizione della società con compiti istituzionali».
La motivazione era nobile, ma oggi i parlamentari non solo prendono l’indennità, continuano a svolgere le proprie professioni spesso a danno della loro funzione pubblica.
«E questo èun altro profilo, sicuramente più grave. In linea di principio se viene eletto un deputato in pensione questi non avrebbe diritto all’indennità dal momento che nessuno lo priva della sua pensione. Attualmente, invece, ci troviamo in presenza di deputati che svolgono due o tre attività contemporaneamente. Bisognerebbe iniziare a parlare di incompatibilità e dei relativi conflitti di interesse».
Gli unici ad andare automaticamente in aspettativa al momento dell’elezione
sono i dipendenti pubblici, comei docenti universitari. A lei sembra una legge giusta questa?
«Affatto. Viene da chiedersi come mai un docente universitario entra in aspettativa e un libero professionista può continuare la sua attività. Non solo è una legge ingiusta perché non stabilisce incompatibilità anche per le altre professioni, ma perché di fatto non impedisce, come nel caso degli avvocati, che si creino dei conflitti di interesse».
Tanto per essere chiari: è normale che l’avvocato Ghedini, deputato, vada anche in tribunale a difendere il premier?
«È un’anomalia. Non si giustifica la posizione di un parlamentare, rappresentante della Nazione, che è contemporaneamente difensore di interessi personali di un personaggio importante come il presidente del Consiglio. Più in generale se uno fa l’avvocato difende degli interessi particolari e può accadere che questi stessi interessi siano in contrasto con l’interesse generale che dovrebbe curare il deputato. Oltre al fatto che svolgere due attività inevitabilmente comporta che una di queste venga penalizzata. Se si è medici e si passa molto tempo con i pazienti quel tempo viene sottratto all’attività parlamentare. E questa, se svolta bene, è ormai un’attività a tempo pieno».
Mase le cose stanno così perché nessuno mette fine a questa anomalia?
«Basterebbe poco: stabilire l’incompatibilità tra la funzione parlamentare e lo svolgimento di attività professionali durante il mandato».
Detta così sembra facile. Il senatore
Quagliariello sostiene che le incompatibilità andrebbero stabilite all’interno di una nuova architettura costituzionale…
«Ma no, basterebbe una legge ad hoc. Non vedo il nesso con l’intera architettura parlamentare. Non stiamo parlando di ridisegnare il Senato o dimezzare il numero dei parlamentari…».
Earriviamo all’altra riforma di cui tutti parlano da anni ma nessuno vuole fare
davvero. Lei come ridisegnerebbe l’architettura parlamentare?
«Quella di trasformare il Senato in una Camera rappresentativa delle autonomie è un’ipotesi di cui si parla ormai da tanto tempo. Il modo più corretto di renderla davvero rappresentativa delle autonomie sarebbe quello di prevedere che essa sia formata da rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, secondo il modello tedesco. Invece spesso viene prospettato come un Senato “federale” ma eletto direttamente dai cittadini, senza nesso con le istituzioni territoriali. Non è la stessa cosa».
da L’Unità