Sopprimere i municipi con meno di mille abitanti è una scelta debole dal punto di vista economico. Esiste un’alternativa più efficace e meno mediatica: rafforzare la gestione associata dei servizi locali. La sostanziale soppressione dei comuni con meno di mille abitanti prevista dalla manovra di ferragosto è una scelta debole dal punto di vista economico e sbagliata sotto il profilo civile e democratico. Contrariamente a quanto si pensi, l’Italia non ha un numero di municipi superiore al resto d’Europa: a fronte degli 8.094 comuni italiani (uno ogni 7.490 abitanti), in Germania ci sono 11.334 gemeinden (uno ogni 7.213), nel Regno Unito 9.434 wards (uno ogni 6.618) in Francia 36.680 communes (uno ogni 1.774) e in Spagna 8.116 municipios (uno ogni 5.687). La media Ue è di un ente ogni 4.132 abitanti. Il nostro problema è un altro: le diseconomie di scala legate alla gestione spesso polverizzata dei servizi locali, ammessoche essi vengano erogati in tutto il territorio nazionale. Secondo i dati Anci-Ifel nel 2008 i piccoli comuni presentavano una spesa pro capite superiore alla media per le funzioni generali (+17,4%) e inferiore per i servizi sociali e educativi
(-25,1%). I risparmi ottenibili accrescendo la scala di produzione dei servizi sono dunque consistenti, nell’ordine di centinaia di milioni di euro, e possono essere conseguiti senza cancellare un prezioso “capitale sociale” di impegno civico a bassissimo costo (i 21.593 consiglieri e assessori dei comuni conmenodi mille abitanti costano tutti insieme l’equivalente di 27 deputati!).
La via maestra è la gestione associata dei servizi, che il decreto legge 78/2010 ha resa obbligatoria per i piccoli comuni con meno di 5 mila abitanti. Da questo punto di vista non si parte da zero: tra i 5.683 comuni con meno di 5mila abitanti 3.124 fanno parte di una comunità montana e 1.271 di una unione di comuni. Il punto critico è che spesso i servizi gestiti in forma associata da questi enti sono pochi e poco importanti, pur con molte differenziazioni territoriali (il70%delle unioni del sud gestisce meno di 5 servizi in convenzione, contro picchi di oltre 20 che si raggiungono nel centro nord). Le 337 unioni di comuni e le 264 comunità montane attualmente esistenti possono però costituire, se opportunamente ripensate, il perno di una radicale riorganizzazione del sistema dei servizi comunali.
Per questo il processo avviato nel 2010 andrebbe rafforzato, legandolo strettamente alla convergenza ai costi standard, innalzando la soglia dimensionale minimadelle gestioni associate, privilegiando le forme di associazione più strutturate (meglio le unioni di comuni rispetto a più blande convenzioni) e introducendo
meccanismi stringenti per garantire il rispetto dei tempi previsti: una quota “riservata” del fondo di riequilibrio per i comuni che si associano (prevista dal federalismo municipale ma rimasta sulla carta), l’inserimento della gestione associata dei servizi tra i parametri di virtuosità, lo sblocco dell’autonomia impositiva solo per i piccoli comuni che rispettano gli obiettivi stabiliti, ecc. Nel nuovo assetto i piccoli comuni manterrebbero la loro identità e i loro organi elettivi (ridimensionati, ma non azzerati) ma i loro servizi fondamentali verrebbero gestiti da un migliaio di unioni comunali/comunità montane, con notevoli guadagni in termini di efficienza e di offerta dei servizi.
Questa strada, meno “mediatica” dello smantellamento puro e semplice dei comuni con meno di mille abitanti, sarebbe assai più incisiva ed efficace dal punto di vista dei conti pubblici: si innesterebbe coerentemente nel processo avviato dalla riforma federalista e permetterebbe ai territori di misurarsi fino in fondo con la sfida di erogare servizi migliori nelle condizioni di massima efficienza possibile.
* Deputato Pd, componente della Bicamerale
per il federalismo fiscale
** Direttore Unione Comuni Bassa Romagna
L’Unità 22.08.11
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