L’interrogativo non è nuovissimo, ma resta – irrisolto – al centro di accesissime dispute politiche, economiche e non di rado perfino filosofiche: in società complesse e globalizzate, il potere vero – cioè la capacità di dettare regole e perfino comportamenti collettivi e individuali – appartiene alla sfera della politica o a quella dell’economia? Le vicende delle ultime settimane, con l’annaspare impotente dei governi di tutto il mondo di fronte alle scorribande della finanza più o meno speculativa, paiono contenere una risposta in sé: nell’assetto attuale, è la politica – ormai – a dover rincorrere in maniera sempre più evidente l’economia alla ricerca di un qualche accordo.
Governanti e classi dirigenti illuminate prenderebbero atto di tale evidenza per tentare – finalmente – di concordare nuove regole comuni e salvare, come si dice, quel che è ancor possibile salvare. In queste pesanti settimane, invece, si è spesso sentita ripetere – e non è questione solo italiana – una tesi per metà consolatoria e per metà frutto di calcoli politici, certo legittimi ma poco producenti. La tesi, nella sostanza, è così riassumibile: il grosso delle responsabilità dello spaventoso tsunami finanziario che sta sommergendo le Borse di tutto il mondo, sta nella pochezza – peggio: nell’assenza di qualsiasi autorevolezza – delle classi politiche governanti. L’assunto è stato esposto ripetutamente anche in Italia il mese scorso, al momento del varo della prima (e insufficiente) manovra del governo: per le opposizioni, a non esser credibili erano non solo e non tanto le misure proposte dal governo quanto gli stessi governanti, da Berlusconi a Tremonti e via via elencando. Ora, pur essendo del tutto evidente il crescente deficit di autorevolezza della compagine al governo, questa tesi – alla luce del profilo mondiale rapidamente assunto dalla crisi – viene riproposta assai più flebilmente: il che, naturalmente, non sposta di un millimetro il giudizio negativo che da tempo, ormai, circonda il governo.
A rischiarare con la giusta luce i termini – e la dimensione – del problema, ci hanno per altro pensato alcuni avvenimenti degli ultimi giorni. Due su tutti: l’effetto paradossale e addirittura controproducente avuto sui mercati dal vertice Merkel-Sarkozy (presentato alla vigilia come quasi risolutivo degli affanni europei) e il paio di capitomboli in cui è incappato Barack Obama, prima nel suo braccio di ferro con Standard&Poor’s e poi con l’annuncio di un piano di rilancio dell’economia americana (accolto da Wall Street con una serie di cali memorabili). Si può seriamente sostenere, allora, che alcune delle più forti e riconosciute leadership mondiali abbiano improvvisamente cominciato a soffrire dello stesso deficit di credibilità di Silvio Berlusconi? Dando per scontato che è dalla politica – e non dalla sola economia – che possono e devono arrivare risposte alle drammatiche difficoltà attuali, andrebbe forse modificato il «capo d’imputazione» da contestare alle classi governanti: la questione, insomma, forse non riguarda la loro credibilità tout court quanto la loro lungimiranza, la capacità di ragionare in maniera più «generosa», globale e solidale. L’approccio alle nuove e indispensabili regole da ricontrattare, insomma, non dovrebbe continuare ad esser condizionato da interessi esclusivamente nazionali, quando non addirittura – e peggio – elettoralistici.
Giunti sull’orlo del baratro, occorrerebbe prender consapevolezza del fatto che altri passi nella stessa direzione potrebbero esser esiziali. E’ un segnale di questo tipo che attendono i «cittadini del mondo», sulle cui spalle sta gravando il grosso della crisi. Dall’ultima querelle europea sugli eurobond, in verità, non arrivano messaggi incoraggianti. Ma si può ancora sperare. Nella forza delle cose, prima di tutto. E nel fatto che raramente il «vecchio ordine» ha lasciato campo al nuovo tra brindisi e tappeti rossi…
La Stampa 20.08.11