Poche parole, più di «federalismo», sono entrate nella discussione e nella lotta politica italiana con tanta forza e con tanta capacità di condizionamento delle strategie dei partiti. Poche parole hanno prodotto conseguenze così imponenti sul piano della legislazione
non solo ordinaria, ma anche costituzionale. E poche parole sono state meno comprese nella loro storia, nel loro significato, nell’ideologia che presuppongono, nelle prospettive che dischiudono. Alla confusione delle idee si aggiunge, oggi, la confusione della pratica politica. La retorica del federalismo ci ha abituati a sentire che solo un governo prossimo ai cittadini si può ritenere autenticamente democratico e che solo la vicinanza fra governanti e governati può assicurare la legittimazione dei primi e il soddisfacimento dei bisogni dei secondi.
Non è il caso di chiedersi, qui, quanto vi sia di propagandistico e quanto vi sia di plausibile in affermazioni di questo genere. Conta di più constatare l’assoluta incoerenza di una pratica politica che, sebbene segnata da simili convincimenti, li rinnega continuamente. La vicenda delle Province è emblematica. Prima abbiamo assistito al tentativo di eliminarle completamente. Ora, nella manovra bis di agosto, se ne è disposto un drastico taglio, conservando solo quelle che comprendono un numero di abitanti superiore a trecentomila
o hanno un’estensione di più di tremila chilometri quadrati. Né nel primo né nel secondo caso la questione è stata inserita in una consapevole strategia della costruzione dei livelli territoriali di governo e nel caso della manovra ferragostana il taglio è stato deciso sulla base di semplici considerazioni contabili, nel presupposto che la riduzione delle Province avrebbe comportato un significativo contenimento dei cosiddetti costi della politica.
Ora, è francamente singolare che si assumano decisioni di questa portata soltanto sulla spinta delle esigenze di risanamento della finanza pubblica. Che questo sia necessario è pacifico,mai suoi contenuti dovrebbero essere determinati in base ad una strategia chiara ed entro un quadro di priorità ben definito. La tesi che il livello provinciale di governo meriti di essere cancellato va considerata con attenzione. E con attenzione ancora maggiore va considerata la tesi che il numero delle Province dovrebbe essere ridotto e che si dovrebbe fare macchina indietro rispetto alle assurde scelte degli ultimi anni, che hanno portato ad una proliferazione di questi enti ben al di là delle esigenze obiettive delle popolazioni. Ma questo si può fare solo se ci si chiariscono le idee sul ruolo che può avere un ente intermedio fra la Regione e il Comune e se, nell’ipotesi che si scelga la soluzione della riduzione numerica, si adottano criteri meno rozzi di quelli della popolazione residente o dell’estensione. Una maggioranza che ha fatto del federalismo uno di capisaldi del programma politico presentato agli elettori non trova di meglio da fare che scaricare proprio sugli enti territoriali il peso della riduzione dei costi, rinnegando le premesse dalle quali era partita. L’opposizione, per conto suo, dovrebbe riconoscere pienamente i difetti della frettolosa riforma del Titolo V approvata nel 2001, proponendo con maggiore convinzione gli aggiustamenti (anche di livello costituzionale) che da tempo è andata elaborando. Per adesso, non possiamo che registrare, sconcertati, che le stesse forze che inneggiano al federalismo riducono le Province per decreto legge e tagliano le risorse degli enti territoriali senza un piano preciso e in una misura tale che la loro autonomia finanziaria resterà una semplice etichetta.
L’Unità 20.08.11