Oggi tutti lo citano, perché offre la spiegazione migliore di dove ci troviamo e dove andremo, e in quanto tempo. Il libro di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, fondamentale per capire i guai in cui l’economia e la politica di Stati Uniti ed Europa si dibattono, ha avuto un’ascesa costante da quando è stato pubblicato a fine estate 2009. «This Time Is Different. Eight Centuries of Financial Folly» (Princeton, edizione italiana Il Saggiatore) è una raccolta ragionata di dati su crisi, debiti e default, privati e pubblici, particolarmente ricca per l’ultimo secolo, da cui gli autori traggono alcune conseguenze e confronti.
La tesi è che la crisi del 2007-2008 non è del tutto diversa da altre di uguale gravità – nell’ultimo secolo solo quella degli anni Trenta è paragonabile – e non avrà esiti diversi. Una sezione di 100 pagine dedicata alla Second Great Contraction, cioè la crisi attuale, è la parte più utile. Rogoff, già capo economista dell’Fmi (2001-2003), insegna a Harvard. Reinhart, suo vice al Fondo, è oggi al Peterson Institute for International Economics di Washington. La loro analisi preveggente fu anticipata in un paper del gennaio 2008 all’American economic association mentre un anno dopo nella stessa sede prevedevano tempi lunghi e l’esplosione del debito pubblico. «Ci restano ancora due, forse tre anni di crisi» dice Rogoff in questa intervista al Sole 24 Ore.
Sono stati necessari due anni perché la tesi di fondo, la lunga durata cioè di crisi finanziarie profonde come quella attuale, e i guai per il debito pubblico, diventasse verità evidente. Come mai?
Non credo sia dovuto a scarsa diffusione delle nostre tesi, da tempo ben note. Sì, è vero che alcuni concetti e dati dell’esperienza storico-economica hanno avuto bisogno di un po’ di tempo per essere valutati nel loro valore ineludibile. Non c’è stata nel mondo degli economisti e degli analisti mancanza di coscienza di quanto era successo. C’è stata tuttavia la diffusa convinzione, a Wall Street e anche alla Fed, che le misure aggressive con cui si è affrontata la crisi nell’autunno-inverno 2008-2009 potessero fare la differenza.
Ma non mancavano, accanto alla vostra, altre voci che si dichiaravano scettiche.
La politica, come è comprensibile, aveva scommesso molto sulle proprie capacità di fare la differenza, questa volta. In più di un’occasione il ministro del Tesoro degli Usa, Timothy Geithner, ha dichiarato che questa volta le misure prese sarebbero state in grado di battere il benchmark di Reinhart-Rogoff, che indica una durata della crisi tipo quella attuale, sulla base dell’esperienza storica, assai più vicina ai dieci che ai due anni. Questi ultimi sono i tempi ideali per la politica, che viaggia come noto sui cicli elettorali, biennali e quadriennali, negli Stati Uniti e più o meno anche altrove.
Anche Wall Street vedeva rosa, e l’ultima ondata di ‘siamo alla fine, si torna alla luce’ c’è stata con le previsioni di fine 2010, a maggioranza sicure di un 2011 positivo.
Il mondo degli economisti delle grandi banche e degli analisti finanziari si muove su una prospettiva che non risale quasi mai oltre la Seconda guerra mondiale. Questo mezzo secolo, e poco più, anche se può apparire a tratti accidentato, è stato invece notevolmente ordinato. Chi fa previsioni a Wall Street conosce bene i cicli economici, dalla recessione postbellica del 1948-49 a oggi, ma non basta. Se si va ben oltre, a ritroso, come abbiamo fatto noi, e si prendono nella dovuta considerazione gli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street del 1929, ci si accorge che la prospettiva cambia. A partire dal 2010 voci autorevoli della Washington ufficiale parlavano degli anni Trenta come unico confronto. Ma c’è voluto tempo perché il messaggio, piuttosto scoraggiante lo ammetto, passasse.
In un recente articolo lei ha parlato ancora di Second Great Contraction: come negli anni Trenta, l’economia gonfiata dal debito deve tornare a dimensioni più sane.
La Great Contraction è stata quella degli anni Trenta e nel nostro libro noi abbiamo coniato il termine Second Great Contraction proprio per contrastare la definizione subito in uso e sbagliata di Great Recession, una sorta di recessione più severa ma che avrebbe in fondo seguito l’iter normale delle recessioni, solo un po’ più lunga e penalizzante. I dati raccolti indicano che quando le crisi sono di rilevanti proporzioni c’è un generale e prolungato calo di produzione, occupazione, si contrae anche il debito e il credito. Credo che la riduzione del debito non debba essere fortissima, per poter riprendere il cammino, ma comunque sensibile, e siamo ancora in questa fase.
Quanti anni di crisi ci restano?
I dati raccolti indicano in 6-7 anni la durata storica di una crisi della portata di quella attuale. Poiché siamo al quarto anno, ancora due, forse tre.
Che cosa distingue le difficoltà americane da quelle europee, nonostante i numerosi punti in comune?
Il dato distintivo della vicenda americana è la crisi dell’edilizia abitativa e dei mutui, che hanno gonfiato la finanza e alla fine sono esplosi. In Europa il dato peculiare è la crisi del debito pubblico incominciata in tre piccoli Paesi, con cause diverse, e poi estesa anche ad altri, Spagna e Italia per primi. Ma anche gli Stati Uniti sono arrivati a un problema di debito pubblico.
Negli Usa è stato un errore non affrontare con più decisione la crisi dei mutui, agevolando la loro rinegoziazione e adeguamento a valori più bassi?
Questo è stato l’errore centrale fatto da Washington, che ha speso molto per tamponare le conseguenze andando in maniera insufficiente a sanare le cause, i mutui appunto. I Tea Party, che non so fino a che punto riusciranno a essere protagonisti, hanno dato un contributo a questo, dicendo che era ingiusto aiutare chi si era comperato con il mutuo facile una casa sproporzionata al reddito. Ma l’errore dell’amministrazione Obama è stato grave. La credibilità di Esecutivo e Congresso è stata poi pesantemente indebolita dal negoziato sul debito, che ha dato la sensazione che nessuno controlli gli eventi, a Washington. Al tutto si è aggiunta Standard & Poor’s.
È sempre dell’idea che alcuni anni di moderata inflazione, tra il 4 e il 6%, sarebbero utili?
Sì, e su questo mi sono preso notevoli reprimende. Ma comunque, questa storia finirà con un aumento dell’inflazione, perché sempre la storia del debito eccessivo è finita così. Allora, poiché le banche centrali hanno gli strumenti per controllarla, sarebbe meglio pianificarla. Io sono un falco sull’inflazione, la combatto, e so benissimo che quando sfugge di mano è perniciosa. Ma non si può non ricorrere anche a questo strumento, moderatamente, per riportare i debiti sotto controllo.
Sottoscrive il pessimismo di chi vede un declino dell’Occidente?
Solo in parte. Un certo declino, americano in particolare, ma anche europeo dove però l’esperienza non è nuova, è inevitabile. Gli altri crescono. Ma non sarà un galoppo senza fine. Non appena le economie sviluppate, le nostre più il Giappone, si saranno assestate, i capitali che ora vanno verso gli ex emergenti ormai emersi torneranno verso i Paesi di vecchia industrializzazione. E allora potremo forse avere Stati di crisi altrove.
Il Sole 24 Ore 17.08.11