Se devi risparmiare, tartassa lo statale. Tu non sai perché ma lui sì. Il tiro al dipendente pubblico non è un´invenzione di Tremonti e Brunetta. E´ anzi, come confermano molti testimoni d´eccezione, un filo rosso che attraversa gli anni Duemila in Italia. «Tipico delle politiche di centrodestra con qualche complicità ideologica anche nel centrosinistra», sintetizza Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia per quindici anni. Oggi che la manovra torna a colpire chi lavora per la Pubblica Amministrazione, il sospetto è che ci sia del dolo. Che insomma si approfitti dell´urgenza economica per dare un altro colpo a chi lavora per il pubblico: «In questa crociata – osserva Nerio Nesi, ex ministro dei Lavori Pubblici – si incontrano le istanze anti-Stato della Lega con l´insofferenza verso lo Stato tipica del berlusconismo».
Un sindacalista come Savino Pezzotta, che ha guidato per sei anni l´organizzazione più forte tra i pubblici dipendenti, la Cisl, conferma: «Adesso si sta davvero esagerando. Siamo di fronte a una scelta non politica o economica ma ideologica che si accanisce contro i pubblici dipendenti come se la rovina della Pubblica Amministrazione diventasse un vantaggio per le imprese private. E´ quasi sempre vero il contrario: in uno Stato che funziona le imprese private lavorano meglio. Fate un viaggio in Francia per verificarlo».
Le radici ideologiche del tiro allo statale sono molto profonde: «Nascono – spiega il filosofo Cacciari – da una vulgata sciocca del liberismo. Gli effetti sono devastanti perché si dice a chi è impiegato nei settori pubblici che il suo lavoro non conta niente. Anche coloro che hanno una notevole professionalità vengono trattati e retribuiti come parassiti». Cacciari offre una testimonianza diretta: «Quando ero sindaco di Venezia la mia segretaria lavorava in modo eccellente per dodici-tredici ore al giorno e guadagnava 1.600 euro al mese. Non la definirei una fannullona. Come non sono fannulloni i professori di liceo che al massimo della carriera sfiorano i 1.800 euro al mese. Quella dei dipendenti pubblici privilegiati e nullafacenti è una fregnaccia».
Eppure non è sempre stato così. C´è stata un´epoca d´oro in cui lo statale non era considerato tanto male. Il suo potere d´acquisto era discreto e i partiti politici, lungi dal tartassarlo, lo vezzeggiavano. I colletti bianchi dello Stato sono stati storicamente il bacino del voto moderato della Dc. Che cosa è cambiato? Il sociologo Marco Revelli vede nella parabola discendente dei pubblici dipendenti «un´altra dimostrazione del fatto che quello di Berlusconi non è per nulla un governo moderato. E´ un governo estremista, nei modi, negli atteggiamenti e nelle scelte. E´ il governo del dito medio di Bossi, delle invettive di Brunetta, il governo che colpisce il ceto medio perché pensa che quel ceto sia incapace di reagire». E non reagirà? «Una rivolta del ceto medio è difficile da prevedere. In genere si tratta di persone che pensano come i ricchi e si arrabattano con uno stipendio da poveri. Gente che, nonostante tutto, vota Berlusconi perché fa status, perché non si abbasserebbe mai a votare il centrosinistra. Parlo naturalmente degli impiegati dei ministeri e della Pubblica Amministrazione. Diverso è il discorso per insegnanti e professori universitari: i tagli nei loro confronti sono un caso di vendetta contro un ceto intellettuale che il berlusconismo sente estraneo».
Che le battute leghiste su Roma ladrona abbiano contribuito a creare l´immagine negativa del dipendente statale fannullone è difficile da contestare. Ma che una buona fetta di dipendenti pubblici non abbia fatto molto per combattere lo stereotipo, è altrettanto evidente. Così bisogna tornare a interrogare i sindacalisti che del mondo del pubblico impiego finiscono per essere i più profondi conoscitori. Paolo Nerozzi, oggi parlamentare del Pd, ha guidato i dipendenti pubblici della Cgil negli anni Novanta: «Anche all´inizio di quel decennio – ricorda – l´Europa chiese all´Italia uno sforzo eccezionale per ottenere l´ingresso nell´euro. E anche allora una parte consistente della manovra venne dal pubblico impiego. Ma gli interventi, compiuti dai governi Amato, Berlusconi e Prodi, seguirono tutti una linea che non era affatto ideologica: si trattava di cancellare dei privilegi come le pensioni dopo sedici anni di lavoro e di premiare la professionalità. Perché si fa presto a generalizzare: tutti sono disposti a inveire contro i dipendenti pubblici che rubano lo stipendio, ma il maestro di tuo figlio è spesso un genio e l´infermiera che accudisce tua madre in ospedale è un angelo».
Distinguere dunque: negli anni Novanta i sindacati proposero di premiare chi è impegnato nei servizi alla persona, come insegnanti e dipendenti della sanità, rispetto ai semplici impiegati a orario fisso occupati dietro una scrivania. Negli anni Duemila quello sforzo di distinguere si è perso sia tra chi attacca i dipendenti pubblici sia tra chi li difende. Sono diventati tutti santi o fannulloni. Pezzotta fa un parziale mea culpa: «Parlo per me, naturalmente, non mi permetterei di giudicare gli altri. Abbiamo commesso anche noi degli errori. Il principale è stato quello di difendere diritti acquisiti nella Pubblica Amministrazione senza puntare sui doveri dei lavoratori in un settore tanto importante per la vita di tutti». Cacciari esprime lo stesso concetto in modo più crudo: «Dopo aver annientato la classe operaia difendendone i diritti in modo corporativo, la sinistra ha cominciato a fare lo stesso con i dipendenti pubblici. Abbiamo una straordinaria capacità di segare l´albero su cui siamo seduti».
Come si esce dalla spirale? Quando e se si ribelleranno i tartassati del pubblico impiego? Revelli e Pezzotta sono pessimisti: «L´unico effetto che produce questa campagna ideologica – dice l´ex segretario generale della Cisl – è quella di creare lavoratori arrabbiati contro il loro datore di lavoro, cioè contro la Pubblica Amministrazione. Dipendenti che lavorano male, che si sentono delegittimati e umiliati, che radicalizzano la loro ostilità e che finiscono per creare inefficienze confermando le tesi di chi li combatte». La rivolta dei pubblici dipendenti? «Non credo che accadrà – prevede Revelli – anche perché non si vede come e chi li possa rappresentare politicamente. Nel bipolarismo sociale non c´è spazio per quel ceto medio. Questo non vale solo in Italia naturalmente. Ma è un aspetto che il berlusconismo ha accentuato». Nerozzi però mette in guardia: «Sono abbastanza vecchio per ricordare che cosa accade quando si ribellano i dipendenti pubblici, parlo degli infermieri degli ospedali o degli insegnanti. Era il 1977. Spero che non si arrivi a quel punto».
L´alternativa virtuosa sarebbe quella di creare una scuola di Pubblica Amministrazione, sul modello francese: «Devo testimoniare – dice Nesi – che agli alti livelli della dirigenza dello Stato ho spesso incontrato professionalità di grande livello. A dimostrazione che anche da noi, pur senza una tradizione centenaria come accade in Francia, esiste una “scuola” virtuosa che andrebbe incentivata».
L´unico che non vuol sentire parlare di crociate è naturalmente il principale accusato, il ministro Renato Brunetta che ha firmato i provvedimenti di questa manovra: «Una crociata contro gli statali? Guardi io sono professore universitario da decenni e non penso proprio di poter essere rappresentato da una semplificazione falsa come quella che lei propone. Non è con le battute che si può ragionare. Le battute le lascio ai clown».
La Repubblica 15.08.11