Non sappiamo se il decreto di ieri sera sia l’ultimo atto del Berlusconi politico: è probabile che non lo sarà, visto che l’uomo ha già dimostrato più volte una straordinaria capacità nel seppellire i suoi aspiranti becchini. Ma a proposito di funerali, non c’è dubbio che ieri ne sia stato celebrato uno, e che l’officiante e il defunto siano singolarmente la medesima persona: Silvio Berlusconi, appunto.
Non tanto il Berlusconi di oggi, che come abbiamo detto in qualche modo se la caverà ancora per un po’: ma il Berlusconi del ’94, quello della discesa in campo, quello del meno tasse per tutti, del più società e meno Stato, del basta con la politica politicante, del basta con le mani dello Stato nelle tasche dei cittadini, quello della rivoluzione liberale, del nuovo Rinascimento italiano.
Non pensi il lettore che queste siano parole di un accanito anti-berlusconiano. Al contrario, immagini per ipotesi che a pronunciarle sia un elettore di Berlusconi. Mi metto nei panni, infatti, di uno di quei tanti italiani che hanno sperato che l’imprenditore Silvio Berlusconi avrebbe finalmente impresso una svolta a un Paese rallentato, quando non paralizzato, dalla vecchia partitocrazia. Ci ha sperato nel ’94, il giorno in cui il nostro connazionale più vincente del momento si presentò in tv dicendo «l’Italia è il Paese che amo». Ri-sperato nel 2001, quando a Berlusconi venne concessa una prova d’appello nella convinzione che poteri ostili – la stampa, la magistratura, la finanza dei salotti buoni – gli avevano impedito di governare sette anni prima. Ri-ri-sperato nel 2008, quando il fallimento di una coalizione troppo eterogenea (quella guidata da Prodi) aveva indotto tanti elettori a consegnare nelle mani di Berlusconi una disperata delega in bianco.
Che cosa deve pensare oggi questo elettore di centrodestra? Da quella discesa in campo sono passati diciassette anni, di cui dieci con Berlusconi presidente del Consiglio, e: 1) le tasse non sono mai state alte come adesso; 2) la presenza dello Stato non è mai stata invadente come adesso; 3) le piccole e medie imprese, cioè il mondo più antropologicamente berlusconiano, non sono mai state in sofferenza come adesso; 4) non ci saranno più le correnti dei vecchi tempi democristiani, ma in confronto alla maggioranza di oggi la Dc di allora appare unita come un partito comunista della Bulgaria.
Intendiamoci bene. Sarebbe ingiusto dare a Berlusconi tutte le colpe di uno scenario tanto tetro. La crisi è mondiale. Questo governo ci ha messo del suo per aggravarla: ma è mondiale.
Però Berlusconi con la manovra di ieri ha perso una grandissima occasione, l’ennesima, per mostrare quella diversità che aveva promesso agli italiani entrando in politica.
Le sue misure sono quelle della vecchia politica. L’imposta di solidarietà non colpisce affatto i «super-ricchi», come qualche sciagurato ha detto: colpisce il ceto medio, ma soprattutto colpisce quel ceto medio costretto all’onestà dall’essere lavoratore dipendente. Lascia invece nella loro arrogante impunità i veri super-ricchi, che sono coloro ai quali questo sistema permette e permetterà ancora di evadere mantenendo la coscienza in un sonno beato. Sempre ipotizzando che chi scrive sia un elettore di Berlusconi, mi chiedo se non debba sentirsi deluso da un centrodestra che si è tanto riempito la bocca con i valori della famiglia e della Chiesa (la quale, purtroppo, ha permesso che se la riempisse). Mi chiedo insomma perché un lavoratore del ceto medio con una famiglia numerosa non abbia alcuno sgravio fiscale, quando in Francia chi ha quattro figli non paga neppure un centesimo di quella che per noi è l’Irpef.
Quanto ai tagli dei costi della politica, il premier e il suo governo sono stati addirittura beffardi. Ne hanno annunciato per 8,5 miliardi di euro. Ma poi, quando li hanno illustrati agli enti locali, s’è visto che non sono tagli alla casta, ma ai servizi, e quindi ai cittadini.
Ancora una volta insomma a dare l’oro alla Patria saranno i soliti tartassati. Si dirà – forse sarà lui stesso a dirlo – che Berlusconi poverino, non l’hanno lasciato governare. Che c’è sempre qualcuno che gli impone una linea che non è la sua. E’ un vecchio ritornello che non funziona più. Anche se così fosse, infatti, nulla toglierebbe alla sconfitta personale di un uomo che aveva promesso decisionismo ed efficienza, che doveva far funzionare il consiglio dei ministri come i suoi consigli di amministrazione e il Paese come una delle sue aziende.
L’altro ieri Tremonti, aprendo il suo incontro con i colleghi parlamentari, aveva detto che siamo di fronte a un caso di eterogenesi dei fini. Si riferiva ad altro. Ma nulla è più «eterogenesi dei fini» dell’avventura politica di un uomo che comincia annunciando la riduzione delle tasse e finisce aumentandole; che comincia mostrando come modello il successo delle sue aziende e finisce con l’Italia sull’orlo del fallimento.
La Stampa 13.08.11
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