Il governo della dissipazione ha infine raffazzonato la manovra della disperazione. Come i peggiori esecutivi andreottiani della Prima Repubblica, costretti a turare in extremis gli allegri buchi di bilancio, buttavano giù in tutta fretta i decretoni di Natale, così anche il gabinetto di guerra berlusconiano, obbligato dal direttorio franco-tedesco e dal board della Banca centrale europea, improvvisa il suo decretone d´agosto. Quarantacinque miliardi “aggiuntivi” di tasse e di tagli, dicono Berlusconi e Tremonti, per accentuare il peso simbolico dello “sforzo” di fronte alla business community. In realtà si tratta di misure che solo in minima parte si sommano, mentre in massima parte si integrano e anticipano la “prima rata” di norme, già evanescenti nel merito e urticanti nel metodo, varate a metà luglio. È il prezzo da pagare all´improvvisazione politica, come i fatti di questi tre anni dimostrano, e non certo alla speculazione finanziaria, come la vulgata governativa si affanna a far credere.
È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana.
Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull´aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che «non mette le mani nelle tasche degli italiani». Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che «in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato». Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall´inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall´inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall´inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell´occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.
La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto “contributo di solidarietà” per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l´eurotassa introdotta dal governo Prodi nel ´96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore “di classe”, come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell´allevamento di Arcore. La scelta di aggredire l´Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi “super-ricchi” (511 mila italiani, cioè l´1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l´anno) fa sì che all´imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l´anno). Dunque, l´intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.
Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l´impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l´intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l´universo dei pensionati, che tra disincentivi all´anzianità e anticipo dell´età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare. Dall´altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l´esito non potrà non essere l´aumento dei tributi locali e l´azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c´è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.
Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell´emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai “costi della politica”. Ancora una volta l´improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già malriposte attese della vigilia. C´è finalmente una sforbiciata delle province e l´accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente “svenduta” nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c´è poco e niente, a parte il modestissimo “obolo” sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy. Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta “patrimoniale”: l´unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all´inizio della sua legislatura perché le considerava «leggi di stampo sovietico».
Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell´economia e alla produzione della ricchezza. È l´aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un´idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino. Tutti gli stati dell´Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un´economia. «Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo», ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.
La Repubblica 13.08.11
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Silvio e l´eterno duello con Giulio “Minaccia sempre di dimettersi”, di Francesco Bei
Stoccata al ministro dal “Giornale”: “Non è più tempo di primedonne intoccabili”. Ma Alfano teme i rischi di una staffetta
Il premier spera ora di cambiare la manovra in parlamento, usando la sponda di Pd e Udc contro il suo ministro
Al termine di una lunghissima riunione pomeridiana a palazzo Chigi con Bossi, Tremonti, Letta e Sacconi – di fatto il summit che approva davvero la manovra – Berlusconi esce dalla stanza affranto e si confida al telefono con un deputato del Pdl: «Non sono riuscito a incidere su nulla». A riprova di quanto poco senta «sua» la stretta sui conti, il premier alza di nuovo il telefono e a un altro amico dice che sul decreto «ha deciso tutto Tremonti». La realtà è un po´ diversa, in effetti nel provvedimento alla fine non c´è né la patrimoniale né la reintroduzione dell´Ici sulla prima casa, due misure fortemente avversate dal premier.
Eppure è al ministro dell´Economia che viene imputata la responsabilità per una correzione dei conti, «che andava fatta in maniera diversa». La tensione con Tremonti nelle ultime 48 ore è arrivata allo zenit. Ricevendo giovedì a palazzo Chigi il governatore della Banca d´Italia, poco prima di salire al Quirinale, persino con Mario Draghi il capo del governo sfoga la sua rabbia contro il ministro dell´Economia: «Minaccia continuamente di dimettersi se non si fa esattamente come dice lui». Contando sul fatto che la sua presenza al governo è al momento indispensabile per rassicurare i mercati sull´approvazione della super-stangata, Tremonti avrebbe persino imposto – come condizione per restare – che alla Banca d´Italia venga immediatamente nominato Vittorio Grilli, il direttore generale del Tesoro. Una prova di forza per dimostrare di essere ancora in grado di condizionare l´esecutivo. Un diktat tanto forte che Gianni Letta avrebbe chiamato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, per chiedergli l´appoggio dell´opposizione alla sostituzione di Draghi con il candidato sponsorizzato da Tremonti. E soltanto la perplessità di Napolitano avrebbe scongiurato quest´improvvisa accelerazione.
Il rapporto tra il ministro dell´Economia e il Cavaliere è dunque tornato molto teso, tanto che nel Pdl sono pronti a scommettere che Tremonti salterà a settembre, una volta approvata la manovra alla Camera e al Senato. Gli umori nel partito di maggioranza sono questi e non c´è soltanto l´episodio della contestazione del ministro Galan a palazzo Chigi, sedata a fatica solo grazie all´intervento diretto di Berlusconi, oppure la ribellione dei quattro “moschettieri” – Crosetto, Stracquadanio, Malan e Bertolini – contro il «ministro delle tasse». Anche il Giornale ieri in prima pagina, con un editoriale firmato da Alessandro Sallusti, ha dato voce agli umori profondi del mondo berlusconiano: «Sarà bene prendere atto – era la conclusione dell´articolo intitolato “Tremonti non convince” – che non è più il tempo di prime donne intoccabili». La rabbia contagia anche i vertici del partito. Ieri l´altro Tremonti aveva convocato una riunione al ministero dell´Economia per spiegare le grandi linee della manovra ai capigruppo e ai ministri più importanti, ma i convocati avevano deciso di disertare l´appuntamento «perché tanto ha già deciso tutto da solo. E ci farà perdere le elezioni colpendo così duramente il ceto medio». C´è voluta la mediazione di Angelino Alfano per convincere la prima linea del Pdl a salire a via Venti Settembre e non far trapelare all´esterno il malumore contro Tremonti. Non che Alfano sia felicissimo di inaugurare la sua segreteria con una stangata che rischia di ipotecare il prossimo passaggio elettorale. Ma, a differenza di molti altri e dello stesso Berlusconi, il segretario del partito teme che sostituire Tremonti a settembre sia un´operazione con troppi rischi. Potrebbero saltare gli equilibri del governo, insieme a Tremonti potrebbe franare anche Berlusconi.
Il Cavaliere comunque non si dà ancora per vinto. Vuole cambiare la manovra ed è deciso a sfruttare a suo favore la spinta del Parlamento. Non a caso ieri sera, in conferenza stampa, ha aperto (come mai prima d´ora) alle opposizioni «responsabili», chiarendo che il governo «non ritiene necessaria la fiducia». Insomma, Berlusconi potrebbe giocare di sponda con Casini e Bersani in funzione anti-Tremonti per ammorbidire il decreto e far sparire quelle misure che gli fanno «grondare il cuore di sangue».
La Repubblica 13.08.11