Quel che resta della coesione nazionale è più che mai nelle mani di Giorgio Napolitano rientrato a Roma. Ed è bene che sia così, perché ci sono ancora troppi dubbi e incertezze intorno a questa manovra da «ristrutturare» (cioè da riscrivere) rispetto a quella di un mese fa. Sembra di capire che il ministro dell’Economia abbia in mente dove intervenire, ma che esistano ancora non pochi problemi all’interno della maggioranza.
Di sicuro ce n’erano ieri mattina, quando si sono riunite le commissioni parlamentari. Di qui il profilo generico del discorso tremontiano. Se il decreto fosse pronto, annunciarlo nei dettagli prima del varo vorrebbe dire esporlo al logoramento politico. Siccome non è pronto, o almeno non lo era ieri mattina, è giocoforza restare nell’empireo dei grandi principi.
Questo spiega perché Tremonti sia piaciuto poco sia al suo amico Bossi, che lo ha giudicato «fumoso» (ed è singolare), sia ad alcuni falchi berlusconiani come Stracquadanio e Crosetto. È la prova che la miscela di interventi (pensioni, rendite, prelievo di solidarietà, eurotassa o patrimoniale e altro) non è ancor ben calibrata. Prima di misurarsi con l’opposizione, la maggioranza deve quindi fare i conti con se stessa. Un compito che spetta in prima persona al presidente del Consiglio.
Ecco perché l’incontro di ieri pomeriggio al Quirinale non è stato un momento protocollare, bensì un passaggio importante e forse decisivo nella gestione politico-istituzionale della crisi. Se c’è un momento in cui i richiami costanti alla coesione devono avere una ricaduta concreta, è quello che stiamo vivendo in questo agosto. Napolitano si rende conto che stavolta il Parlamento deve esprimere il proprio senso di responsabilità in modo convincente. Convincente e visibile agli occhi dei mercati e dell’Europa.
A sua volta, Berlusconi sa di avere in Napolitano un prezioso alleato. Non solo per definire la cornice della manovra, con i suoi delicati pesi e contrappesi, ma anche per evitare, se possibile, uno scontro distruttivo con l’opposizione politica e sociale. Si potrebbe dire, anzi, che Berlusconi si trova al vertice di un triangolo in cui gli altri due vertici sono occupati dal Quirinale e dal governatore della Banca d’Italia. Non è un caso che Draghi sia stato molto attivo in questi giorni e che i suoi consigli siano stati recepiti nella sostanza da Palazzo Chigi: ancora ieri pomeriggio, mezz’ora prima che Berlusconi, Tremonti e Letta si recassero da Napolitano.
Ciò rende ancora più oscuro (o al contrario, fin troppo chiaro) l’attacco di Bossi: la lettera della Bce che sarebbe stata scritta a Roma, dove c’è Draghi «che dovrebbe essere in Europa e invece è ancora qui». Il tutto sullo sfondo di complotti imprecisati, volti a rovesciare il Governo. È strano questo linguaggio del capo leghista che fino al giorno prima giudicava «positivo» che l’Italia fosse finita sotto la tutela della Banca centrale europea. In condizioni normali, queste dichiarazioni del leader del secondo partito di governo avrebbero potuto provocare uno sconquasso. Per fortuna così non è stato: forse i mercati hanno imparato a non farsi impressionare dalle infinite contraddizioni italiane. Resta il fatto che la Lega si conferma un partito nervoso e ondivago, timoroso di dover pagare un alto prezzo politico al rigore imposto dalla crisi.
E in ogni caso Berlusconi sembra aver imboccato la via del realismo. Lo potremo affermare meglio solo dopo che il famoso decreto sarà nero su bianco, pronto alla firma. Fin d’ora però si può dire che il triangolo Quirinale-Palazzo Chigi-Via Nazionale sta operando come mai era successo nel recente passato. Non abbiamo ancora la certezza che tutti i tasselli della manovra andranno al loro posto e soprattutto che si troverà il punto d’equilibrio in grado di evitare qualche iniquità sociale. Né sappiamo se gli interventi riusciranno a restituire un po’ d’impulso all’economia stagnante.
È vero però che l’opposizione dimostra nel complesso una certa prudenza. Bersani non ha certo fatto un intervento incendiario ieri mattina in commissione. E Casini da tempo parla il linguaggio dell’equilibrio e della ragionevolezza. Su queste basi si può supporre, con un filo d’ottimismo, che alla fine l’Italia politica riuscirà a offrire una buona immagine di sé in un momento drammatico. Accadrà in particolare se il centrodestra terrà conto degli argomenti della minoranza; e se eviterà di porre l’enfasi su aspetti che oggi metterebbero la sinistra in estrema difficoltà: ad esempio la questione dello Statuto dei lavori, che può essere posta all’ordine del giorno in un secondo momento, così da disinnescare ulteriori irrigidimenti della Cgil e del Pd.
Comunque sia, siamo alla stretta finale. E si capisce che l’Italia dopo questa avventura non sarà più quella di prima. Forse sarà migliore.
Il Sole 24 Ore 12.08.11