La coesione sociale è un guscio fragile, costantemente attraversato da rischiose incrinature sociali. A volte basta un colpo per romperlo. Ci sono anche in Italia le condizioni perché si verifichi un’esplosione all’inglese? Per rispondere si può cominciare osservando – come è stato fatto da vari commentatori – che i rischi di deflagrazione aumentano quando le incrinature si sovrappongono: ad esempio quando la marginalità sociale e culturale riguarda ceti in difficoltà e minoranze etniche che si concentrano in pezzi di territorio. Ma, mentre a prima vista la rivolta inglese pareva avere una connotazione etnica, si è poi capito che il colpo iniziale dell’uccisione del ragazzo afro-caraibico ha solo dato l’avvio a un’orgia di rabbia e di giocosi saccheggi, una scorribanda senza confini razziali e alla quale hanno partecipato persino persone mature e gente non priva di mezzi.
Concentriamoci, però, sull’avvio, e cioè sul rischio che in Italia possa verificarsi un’esplosione che abbia radici etniche. Se questo è il quesito, più che chiedersi «capiterà anche a noi?», si dovrebbe osservare che un po’ è già capitato. Qualche assaggio della sindrome «esplosione da concentrazione etnica» in Italia lo abbiamo già avuto. Basti ricordare le rivolte dei negozianti cinesi concentrati a Milano nella zona via Paolo Sarpi o quella dei braccianti neri a Rosarno. C’erano le incrinature, i cattivi rapporti dei cinesi con i vecchi abitanti del quartiere, lo sfruttamento estremo dei lavoratori africani. In entrambi i casi però la rottura è avvenuta in seguito ad un colpo esterno. All’origine della rivolta di Chinatown c’è una vigile forse troppo zelante e – secondo la comunità cinese – persino aggressiva. In Calabria, a far scattare la molla è stato il tragico tiro al piccione contro gli immigrati organizzato da malavitosi locali. Le sommosse inglesi di questi giorni e quelle nelle banlieue francesi del 2005 sono state entrambe quantomeno innescate dall’uccisione ingiustificata di un giovane appartenete alle minoranze. Per abbassare i rischi di esplosioni bisognerebbe quindi non solo tenere sotto controllo le incrinature sociali (cosa tutt’altro che semplice), ma anche prevenire i contraccolpi di azioni sbagliate. Una polizia rispettosa e ben addestrata è una condizione necessaria ad evitare abusi e conseguenti reazioni. Nelle devastazioni degli stadi così come nelle evoluzioni violente di manifestazioni politiche si assiste ad una guerra tra ribelli e forze dell’ordine. Non si giustificano i ribelli, se si osserva che a volte la scarsa esperienza delle forze dell’ordine, come nel caso delle sommosse inglesi di questi giorni, non aiuta. In Italia il reclutamento nella polizia prevede test e colloqui che dovrebbero verificare capacità di mantenere equilibrio anche in condizioni di forte stress. Non è chiaro però quanto funzionino. È evidente, comunque, che non si può puntare solo su una repressione per quanto ben temperata e temprata.
La ricetta classica per la gestione dei conflitti richiede anche interventi sociali che ammorbidiscano i motivi di rivolta dei potenziali ribelli. Come ci hanno insegnato le ricerche di sociologia storica, quelle di Alber e Flora in primis, il primo serio Welfare nasce proprio per contenere i conflitti. Si tratta delle misure adottate nella Germania di Bismarck per tagliare l’erba sotto i piedi ai movimenti socialisti. Nei confronti dei quali il Cancelliere, prima di varare lo stato sociale, aveva adottato politiche repressive, ma non solo. Si deve anche all’intesa con Lasalle, il leader socialista morto prematuramente, l’introduzione del suffragio universale maschile assai prima che in altri Paesi europei. Tempi difficili richiedono strategie complesse.
Anche oggi in Italia, per affrontare i rischi di conflitti dirompenti, servirebbero accordi che affrontino la crisi senza limitarsi a tappare i buchi. Occorre danaro pubblico da investire non solo per far ripartire l’economia, ma anche contrastare emergenze sociali e di disuguaglianze generazionali destinate a peggiorare. E non si capisce come sia possibile recuperare oggi le risorse necessarie senza riformare la struttura delle pensioni e senza tassare i patrimoni. Ma serve anche altro: servono misure innovative che contribuiscano a dare la speranza di ottenere considerazione sociale e soddisfazione individuale senza il possesso di uno smartphone di razza e di sneakers di alta gamma. Nel 2005, Sarkozy come ministro dell’Interno non è andato per il sottile con la repressione delle rivolte nelle banlieues, né nei toni, né nei fatti. Però ai ragazzi residenti nei quartieri svantaggiati ha offerto una grande opportunità: l’accesso facilitato alle Università di pregio. È un esempio di misure che non bastano certo a riformare una cultura trasversale del consumo come involucro e terapia dell’io, ma cercano almeno di andare nella giusta direzione.
L’offerta di prospettive basate sull’impegno individuale, provvedimenti in grado di promuovere la mobilità sociale sono vie che l’Italia non ha mai imboccato. Per moderare le fratture esistenti dovrebbe iniziare a farlo, ad esempio con forti investimenti nell’istruzione, in particolare nella prima infanzia, quando si fondano le basi dell’apprendimento e si gettano i semi della morale collettiva. Se temiamo disordini dobbiamo tenere sotto osservazione l’impatto di quel tremendo «colpo esterno» che ci sta assestando la crisi economica. Ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che, sotto il profilo della coesione sociale, il colpo è aggravato dai fari accesi su incrinature pregresse. Cresce la consapevolezza sociale dell’esistenza di sprechi assurdi, di insopportabili privilegi, di disuguaglianze di reddito che ben poco hanno a che fare con il merito. Un forte colpo che si abbatte su gravi fratture sociali rappresenta l’habitat ideale per l’azione di gruppi violenti più o meno politicizzati, più o meno legati alla criminalità. Insomma ancora più che Londra dobbiamo temere Atene: più che sommosse di origine etnica che si trasformano in distruttivi uragani consumistici, dobbiamo temere manifestazioni di origine politica aperte ad infiltrazioni che degenerano in violenza, vandalismo, saccheggio. Possiamo sforzarci di prevenirle.
La Stampa 12.08.11