Le imprese italiane recuperano fatturato e utili. Ma perdono occupazione e sono sempre più «estere», contribuendo così meno in fondo alla «ricchezza della nazione». Il rapporto 2011 dell’Ufficio studi di Mediobanca sui «Dati cumulativi di 2.030 società» conferma che rispetto al 2007, cioè agli ultimi bilanci prima della crisi avviata dalla finanza Usa e ricaduta sull’economia, l’azienda Italia ha riguadagnato buona parte del terreno perduto. E ha in pratica ricoperto l’«ultimo miglio» mancante nella prima metà di quest’anno.
Il totale delle società industriali comprese nell’analisi (che viene realizzata da Mediobanca dal 1962) ha visto nel 2010 una ripresa del fatturato dell’8,2%, con una crescita dell’export del 12,6%. Rispetto al 2007 i ricavi aggregati accusano dunque una perdita limitata al 3,9%, che tuttavia è ricoperta dall’andamento del primo semestre 2011, che ha registrato un aumento del fatturato dell’11% per l’industria energetica e del 14% per quella manifatturiera.
Però la fotografia va osservata completa e con attenzione. Perché anzitutto l’Italia è a due velocità se si considera la proprietà: le imprese private rispetto al 2007 hanno fatturato ancora il 6,7% in meno mentre quelle pubbliche registrano ricavi superiori del 6,3%. Un doppio binario che si chiude se si considera l’occupazione: sul 2007 i dipendenti sono calati del 5,1%. Più pesante invece per i privati il bilancio degli investimenti: sono scesi del 16,2%, ma le società pubbliche li hanno mantenuti invariati.
Nessun recupero c’è stato invece sui margini, anzi: rispetto al 2007 l’utile operativo resta inferiore del 23% e quello corrente dell’11,3%. Nel 2010 c’è stato per la verità un balzo dell’utile netto aggregato, che è aumentato del 64% rispetto al 2009. Ma anche in questo caso il dato va osservato con attenzione perché è stato determinante il contributo dei proventi finanziari netti, pari ai sei decimi del maggior profitto. E qui la fotografia deve diventare «macro» perché solo così si «scopre» un cambiamento strutturale in atto nell’industria del nostro Paese. Il saldo finanziario non significa in realtà solo finanza: se da un lato hanno contribuito i tassi minori, dall’altra c’è stato un boom dei dividendi, cresciuti del 47%. E affluiti in modo particolare dalle consociate estere. Sì, perché una quota crescente di ricavi e margini proviene dalle attività che operano estero su estero, cioè generalmente da impianti localizzati in Paesi a basso costo degli input per servire i mercati emergenti: nel 2010 tale componente è salita al 31% dei ricavi della manifattura e al 42% di quelli dell’industria energetica, con margini cresciuti nel solo 2010 del 78% (contro il 9,3% delle attività domestiche) e che hanno raggiunto quota 40% per la prima e 73% per la seconda. Ecco dunque che il progressivo spostamento all’estero di impianti e società, che poi fanno affluire gli utili attraverso i dividenti, contribuisce al calo di investimenti e occupati in Italia e al minore «peso» del fisco: l’aliquota fiscale scende per l’aggregato dal 30,1% al 25,6%, mentre il tax rate resta al 34,6% per le imprese medie, che rimangono più «domestiche».
Infine, se la produttività del lavoro è aumentata dell’8,9% nel 2010, resta inferiore del 7,7% rispetto al 2007. E dal 2001, nonostante il calo di occupati pari al 9,4%, la dinamica salariale con un aumento del 28,6% ha portato a una perdita di competitività di oltre 7 punti. A perdere terreno è stato in generale il sistema del «made in Italy»: rispetto al 2007 il fatturato è diminuito del 6% con una riduzione dell’8,2% dell’export.
Il Corriere della Sera 10.08.11