Speriamo che la seduta congiunta di domani delle commissioni parlamentari Affari costituzionali e Bilancio sia la sede in cui il governo finalmente parla e dice ciò che ha in mente di fare.
Il paese ha necessità di conoscere con precisione le richieste della Bce e di eventuali altri organismi internazionali per poter valutare il progetto del governo, sempre che, lo ripeto, sia in grado di presentarlo. Ascolteremo e valuteremo. Bersani ha già detto che la manovra così come era stata presentata nell’architettura e nei saldi, se non sarà profondamente cambiata, non potrà essere condivisa.
Ma vi sono due proposte che sembrano già definite, anzi che sono già state assunte a manifesto promozionale dell’operazione governativa, quella di revisione dell’art. 41 della costituzione e quella dell’introduzione sempre in costituzione del vincolo di pareggio del bilancio, su cui è già possibile pronunciarsi.
Francamente non si capisce l’importanza e il nesso di queste due revisioni costituzionali con le questioni poste dall’attuale crisi economica. I tempi della revisione poi, per le procedure dettate dall’art. 138, sono troppo lunghi per potere produrre effetti su questa crisi, ammesso che ne possano determinare. Ma non dobbiamo dimenticare mai che le costituzioni sono le leggi che i popoli si danno nei momenti di maggiore saggezza per difendersi dai momenti di maggiore dissennatezza, per questo vanno maneggiate con prudenza e intelligenza.
Piegarle alle esigenze delle intemperie storiche è sempre pericoloso, non foss’altro perché la storia ci ha più volte dimostrato di saper cambiare i propri umori, per non dire dei ritorni ricorrenti di vecchie visioni che sembravano superate: basterebbe ricordare il ciclico ritorno in auge delle strategie keynesiane o di quelle cosiddette mercatiste.
Romano Prodi e Valerio Onida in questi giorni ci hanno messo in guardia rispetto ai rischi di rigidità di un vincolo costituzionale al pareggio di bilancio, con conseguente rinuncia a forme di indebitamento eventualmente necessitate da esigenze temporanee e se si vuole anche tecniche. Lo stesso art. 110 della Legge Fondamentale tedesca che contempla che “il bilancio di previsione deve essere in pareggio”, come ci ricordava ieri Marco Olivetti, viene interpretato come pareggio formale, non sostanziale, conseguibile anche mediante il ricorso al credito. Se è così allora è giusto che ci diciamo che la nostra costituzione dispone già di strumenti che ove non fossero aggirati garantirebbero la responsabilità della spesa. Pensiamo all’art. 81 che fa carico al legislatore del dovere di indicare una copertura efficace e, dunque, vera («i mezzi per farvi fronte») per ogni legge di spesa. Non sottovalutiamo certo la gravità dell’attuale situazione economica e finanziaria mondiale e la necessità di dare segnali di responsabilità a chi ce li chiede, ma restiamo dell’avviso che la costituzione debba continuare ad essere “maneggiata con cura”.
Ciò che però a noi pare sin d’ora inaccettabile è la proposta di sostituire l’art.41 con un testo da propaganda elettorale.
Lo sappiamo che è una vecchia idea di Berlusconi e di Tremonti sin dai tempi di una famosa assemblea della confindustria a Parma, in cui si impegnarono a capovolgere come un calzino questa costituzione “sovietica” per riordinarla attorno alla centralità dell’impresa. Ma la centralità attorno a cui si costruisce un ordito costituzionale non può che essere quella della soggettività primaria e assoluta dell’uomo. L’impresa è una costruzione dell’uomo e deve essere utile all’uomo. Perciò è stata giusta la scelta dei costitutenti di affermare la centralità della persona e, insieme, di riconoscere il valore inderogabile della proprietà privata, della libertà d’impresa e della tutela della concorrenza, come è detto già e bene negli art. 41, 42, 43 e 117. Un impianto di norme, tutte quelle del Titolo III, che hanno consentito all’Italia in passato di diventare in un paio di decenni di vita repubblicana la quarta potenza industriale del mondo, e di realizzare senza ostacoli tutte le liberalizzazioni e le privatizzazioni necessarie.
Perché a questo punto si debba cancellare quel nucleo di filosofia economica, industriale e umanistica, sedimentato in particolare nell’art.41, veramente non si capisce e, se si capisce, non si può accettare.
Basterebbe riandare a quel dialogo illuminante e suggestivo fra Piero Malvestiti, Luigi Einaudi e Meuccio Ruini in assemblea costituente proprio al momento dell’approvazione dell’art.41, per comprendere come la libera iniziativa economica non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, identificata e definita dalla legislazione ordinaria, la quale non potrà non riflettere le esigenze storiche e la cultura diffusa nella società.
Ma è particolarmente moderno quell’art. 41 anche per un’altra ragione, perché di fatto sostiene che l’impresa non può essere intesa soltanto come “una società di capitali”, ma più propriamente – come ci dice Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus – «una società di persone di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità, sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività sia coloro che vi collaborano con il proprio lavoro».
Tutto questo patrimonio culturale dovrebbe essere oggi cancellato? Perché? E, persino, per quali effetti attesi nell’attuale drammatica crisi economica? Il Pd non ha certo titoli esclusivi per essere garante del testo e dello spirito della costituzione, ma di fronte a tanto rischio di scempio, sente il dovere di rivolgersi a tutte le forze serie e democraticamente “sapienti” del parlamento e del paese, per una resistenza semplicemente responsabile.
da Europa Quotidiano 10.08.11