Tra i docenti di alcune università italiane, soprattutto del Sud, in alcune facoltà, soprattutto a medicina, a ingegneria e a giurisprudenza, c’è una frequenza statistica di alcuni cognomi così anomala da lasciar intendere criteri di selezione poco trasparenti, di tipo parentale. Spesso una famiglia copre intere filiere di cattedre. Lo sostiene Stefano Allesina, un giovane ricercatore italiano che lavora all’Università di Chicago, in un articolo pubblicato su PLoSONE,una rivista scientifica internazionale, dal titolo piuttosto significativo: «Una misura del nepotismo attraverso la distribuzione dei cognomi: il caso dell’Accademia italiana». Allesina ha compiuto un lavoro ottimo – ha analizzato la distribuzione dei cognomi di 61.340 docenti in 28 discipline e 94 università – perché ci aiuta a riflettere sui mali della nostra università. Uno dei quali è, certamente, il nepotismo. Ma il suo lavoro torna utile al Paese e non diventa strumento nelle mani dei demagoghi che vogliono la morte dell’università pubblica, se si tengono in conto tre importanti elementi. Primo: la statistica coglie un fenomeno generale,ma non fornisce valutazioni di merito. L’algoritmo di Allesina avrebbe considerato un’anomalia di stampo nepotistico il fatto che – tra fine ’800 e inizio ’900 – un professore di economia presso un’università del sud, Catania, più volte ministro, abbia avuto tre figli rettori del medesimo ateneo, un quarto figlio docente a Bologna e un nipote chiamato in cattedra “per chiara fama” e quasi senza titoli a Napoli. Quel professore si chiamava Salvatore Majorana-Catalabiano e nessuno ha mai considerato i suoi discendenti, compreso il nipote Ettore, dei raccomandati. Semmai dei geni. In tempi più moderni la famiglia Prodi, su sette fratelli, ne ha visti sei diventare docenti universitari. Nessuno è considerato un usurpatore. In altre parole: la frequenza anomala dei cognomi coglie in maniera indiscriminata sia fenomeni di nepotismo (e in Italia sono tanti e tutti inaccettabili), sia fenomeni di vocazioni familiari. Secondo: il fenomeno riguarda alcune facoltà molto più di altre. In particolare riguarda le facoltà dove è massima la simbiosi con ricche professioni (medicina, giurisprudenza, ingegneria, economia) e minima l’attività di ricerca. Senon teniamo conto di ciò non potremmo spiegarci come mai i ricercatori italiani nell’analisi comparata con i colleghi del resto del mondo hanno – sempre statistiche alla mano – un’elevatissima produttività, un’elevata qualità e un buon tasso di internazionalizzazione. Terzo: per quanto inaccettabile e odioso, non è il nepotismo il male principale dell’università pubblica italiana. Ma il fatto che, caso unico in Occidente, il governo la doti di risorse piccole e sempre minori. Col nepotismo l’università si ammala. Senza risorse muore.
L’Unità 09.08.11
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