attualità, economia, interventi, politica italiana

«Lasciate stare la Costituzione», di Valerio Onida

Cosa c’entra l’articolo 41 con i problemi dell’economia? Più seria la questione del vincolo di pareggio del bilancio ma il pericolo è svuotare la politica dalle proprie responsabilità. Per affrontare l’emergenza meglio altri strumenti

C’è qualcosa di sospetto nelle intenzioni annunciate in questi giorni, sull’onda della “emergenza” economico-finanziaria, di varare alcune riforme costituzionali, che vanno dalla modifica dell’articolo 41 sulla libertà dell’iniziativa privata alla introduzione di un vincolo al pareggio di bilancio. Cosa c’entri l’articolo 41 con i problemi reali dell’economia italiana non l’abbiamo ancora capito: è dimostrato che nessuna politica di rigore finanziario, di sana liberalizzazione o anche di sana e utile privatizzazione, è impedita dai principi costituzionali vigenti, che coniugano la libertà di iniziativa con il limite della «utilità sociale» e affidano alla legge, cioè alla politica, il compito di «indirizzare e coordinare a fini sociali» – cioè di interesse generale – l’attività economica pubblica e privata. L’unica cosa chiara è che, nell’incapacità o non volontà di attuare «vere» riforme utili ai cittadini, si vuole guadagnarsi l’etichetta di «liberalizzatori » a oltranza con la meno costosa riscrittura della Costituzione. Più serio è il discorso sul vincolo costituzionale di pareggio, che si aggiungerebbe a quelli che ci impone da qualche tempo l’Unione monetaria europea. La nostra Costituzione, all’articolo 81, stabilisce l’obbligo per le leggi di «indicare i mezzi» per far fronte alle «nuove o maggiori spese», cioè il dovere per i legislatori di assumersi consapevolmente ed espressamente la responsabilità dell’equilibrio finanziario complessivo, quando decidono misure che comportano aumenti di spesa o riduzioni di entrate. Che poi questo vincolo sia stato spesso non rispettato o aggirato, è vero, e non depone a favore della capacità della politica di attenersi agli obblighi che pur dalla Costituzione sono imposti chiaramente. Certo, l’articolo 81 non vieta in assoluto di indebitarsi: il deficit spending è da sempre uno strumento di politica economica, utile per esempio quando attraverso nuovi investimenti, pagati col debito, ci si proponga di stimolare l’economia ottenendo anche i mezzi per ripagare il debito stesso negli anni. Vietare in modo assoluto e senza eccezioni di indebitarsi per poter spendere può essere perfino pericoloso (e forse impossibile da ottenere). Stabilire in Costituzione un vincolo al pareggio del bilancio (effettivo, non ottenuto col ricorso al debito) assomiglia un poco alla strategia di Ulisse che, pensando di non saper resistere al canto delle sirene – nel nostro caso, alle sirene della spesa pubblica – si fa legare all’albero della nave. Se poi magari succede qualcosa che obbliga o consiglia di ricorrere al deficit(come è accaduto per molti Paesi dopo la crisi del 2008), si vedrà. Intanto leghiamoci all’albero. In realtà quello che occorrerebbe soprattutto è la «interiorizzazione », da parte della politica (di maggioranza e di opposizione) del sano vecchio criterio di buon senso per cui le nozze non si fanno coi fichi secchi: e dunque, se si vuole o si deve spendere per soddisfare diritti o ottenere benefici, si debbono anche procurare, con il prelievo tributario, le entrate corrispondenti, ricorrendo al debito solo quando e nella misura in cui si sa di poterlo ripagare con le entrate future. Conquesto criterio però si scontra il mito o il pregiudizio per cui la spesa pubblica è necessaria, ma i sacrifici per pagarla li devono fare sempre “gli altri”, e per i politici proporre aumenti delle tasse significa suicidio. Nella odierna società del benessere sembra talvolta che si sia persa l’idea (che invece sta chiaramente anch’essa nella Costituzione) che tutti debbono concorrere alla spesa pubblica, e chi ha di più deve concorrere di più. Il vero problema del sistema fiscale è l’equità: pagare tutti, pagare in relazione alla propria «capacità contributiva». Inseguendo invece lo slogan «meno tasse» (ma la spesa non si tocca) si apre la strada del disavanzo: non è un caso che negli Usa l’era dell’antistatalista Reagan è stata anche l’epoca di un forte incremento del debito. Ragioniamo allora di «fondamentali » come questi, e della cultura che vi sta dietro, e lasciamo stare la Costituzione.

da L’Unità

******

«Non date la colpa alla Costituzione», di Michele Ainis
In Italia è un vizio antico, quello di scaricare sulla Costituzione le colpe dei governi. Ma l’ultima imputazione è anche la più odiosa: i padri fondatori sarebbero i nostri affondatori. Meno male, adesso sappiamo con chi prendercela. Ecco dov’è la responsabilità della tempesta che si è abbattuta sui titoli di Stato, ecco il tappo normativo che impedisce le liberalizzazioni, ecco perché l’economia italiana cresce come un nano. E gli anni Cinquanta, quelli del boom? Non era forse già in vigore la Carta del 1947? Evidentemente dev’essersi assopita, giacché a quanto risulta non si mise per traverso. Siccome però la bella addormentata da un momento all’altro può svegliarsi, l’esecutivo ha appena battezzato due riforme. Riusciranno a placare la furia dei mercati? Dipende: se aspettano un paio d’anni — quanto serve per la doppia lettura delle Camere, per il probabile referendum confermativo, per scrivere le leggi d’attuazione— magari ne usciremo vivi. Nel frattempo è giusto misurarle senza pregiudizi. A partire dalla prima: l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Per una volta, una riforma che mette d’accordo tutti: l’opposizione di centro e di sinistra, la Confindustria e i sindacati, illustri esponenti della società civile, come Montezemolo. Ci accodiamo volentieri, però con una glossa: in un Paese normale questa riforma non sarebbe necessaria. Intanto perché l’equilibrio fra entrate e spese dipende da una mentalità, dalla cultura del buon padre di famiglia, quella che viceversa manca ai politici italiani. E in secondo luogo perché il vincolo è già iscritto nell’art. 81. O almeno era questa l’intenzione dei costituenti, come mostra uno studio di Luigi Gianniti. Basta rileggere i discorsi di Einaudi, che ne fu il proponente. Di Mortati, di Vanoni. O ancora sfogliare una relazione di Castelli Avolio, presidente della commissione Finanze della Camera, scritta il 17 febbraio 1953. Ma invece che è accaduto negli anni successivi? Quell’obbligo via via fu interpretato in modo tendenziale, trattato come il lascito d’una generazione segnata dal pesante disavanzo della guerra. Sparita quella generazione, è sparito pure il vincolo. E allora rivincoliamoci, ma a una condizione: di stabilire procedure di verifica certe e inoppugnabili. Altrimenti continuerà il giochino d’iscrivere in bilancio poste aleatorie, capitoli del libro dei sogni. E la riforma innescherà l’ennesima rissa fra i partiti. Per scongiurarla, basta introdurre un ricorso diretto alla Consulta da parte delle minoranze parlamentari, quando sospettano lo sforamento di bilancio. E c’è poi il nuovo art. 41: «Tutto è libero tranne ciò che è vietato» . La madre di tutte le liberalizzazioni, ha detto Tremonti. Ma anche il padre di tutti gli annunci, poiché il governo ne aveva già dato notizia nel giugno 2010, nel febbraio 2011, e adesso siamo a tre. Domanda: e se domani volessi costruire un superattico sopra il Colosseo, potrei farlo? No, perché la legge me lo vieta. Dunque è la legge che dovremmo casomai emendare, non la Costituzione. Anche perché quest’ultima già protegge una sfera generale di libertà degli individui (Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2011). Invece di scomodare Benjamin Constant, il governo farebbe bene ad applicarsi sulle riforme costituzionali che possono sgonfiare il pancione dei politici: abolendo le province, dimezzando i parlamentari, ponendo limiti alle loro prebende. Campa cavallo.

da il Corriere della Sera