Sempre più vecchi, soli e provinciali: ecco il panorama che affliggerà le nuove generazioni di scienziati italiani.
Punto nodale il dottorato di ricerca, tre anni di alta formazione dopo la laurea per capire se c’è la stoffa per diventare buoni ricercatori e potenziali innovatori. La versatilità degli statuti delle Università è grande: e oltremodo grandi potrebbero essere dunque gli errori da commettere.
Tra gli indicatori che ci dovranno dire se abbiamo davvero raggiunto l’obiettivo di fare dell’Europa “l’Unione della innovazione” da qui al 2020, ce ne sono ben tre collegati al dottorato: due di natura quantitativa (nuovi dottori di ricerca ogni mille cittadini fra 24 e 34 anni, percentuale della popolazione fra 30 e 34 anni con un titolo di livello dottorale) e uno qualitativo (numero di studenti di dottorato non-europei per milione di abitanti). Non solo. La Commissione Europea, nel definire la strategia “Eu 2020”, cita fra i principali impegni che gli Stati Membri devono assumere nella costruzione dello Spazio Europeo della Ricerca la promozione della qualità del dottorato di ricerca. Si sta adeguando l’Italia? Rischiamo una perniciosa auto-referenzialità nazionale, che ci allontanerebbe dall’Europa “continentale” annegandoci in surreali dibattiti su nomi e numeri delle singole scuole dottorali. Coltivando l’illusione che accorpare, ridurre, rinominare, generi “spontaneamente” qualità.
L’Europa chiede da anni di superare il modello del dottorando-apprendista, il curioso rapporto “filiale” tra supervisore e dottorando, l’introduzione della figura del mentor, quell’autorevole garante rispetto al rischio di interpretazioni “improprie” del ruolo del dottorando (che non è lì per portare a spasso il cane del professore). L’Europa mira a promuovere dottorati davvero orientati ai problemi, alle grandi sfide (cambiamento climatico globale, sfide energetiche emergenti, mutazione demografica, farmaci efficaci per l’invecchiamento, telecomunicazioni low cost, ecc.), che di per sé presuppongono approcci interdisciplinari e dialogo fitto e osmotico tra accademia e società.
Rischiamo invece di ribattezzare i dottorati di ricerca con anodine e standardizzate denominazioni rigidamente disciplinari (dottorato in chimica, in fisica, in matematica…). Perché non ritornare ancora più indietro, nel bel tempo antico, con le denominazioni delle arti del trivio e del quadrivio? Retorica, Grammatica, Dialettica, Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica?
Fulvio Esposito, rettore Università di Camerino e Enrico Alleva socio dell’Accademia dei Lincei
da L’Unità