Ormai non è nemmeno un problema politico. È un problema energetico. Nel momento meno adatto per lui, ma soprattutto per noi, Silvio Berlusconi ha esaurito la benzina. Non seduce e non indigna più. Annoia. Altro che nuovo predellino, questo è il discorso della sedia a dondolo: mancano soltanto la coperta sulle ginocchia e la papalina in testa. Purtroppo non sarebbe ora di andare a dormire, ma di svegliarsi e combattere. E invece non una parola d’ordine, un colpo di barra, un guizzo liberale. Il presidentetisana è completamente fuori contesto. Come se, sul cadavere di Cesare, Marcantonio avesse discettato sommessamente sulla stabilità del governo o, sotto le bombe naziste, Churchill avesse promesso agli inglesi un comitato interministeriale. Eppure speriamo che i mercati internazionali si limitino a leggerlo. Perché se per disgrazia vedranno anche le immagini, l’effetto sulle Borse potrebbe essere ancora più deprimente.
Nell’estate del nostro scontento, il venditore di sogni che infiammava le «convention» con petardi d’ottimismo scongela il suo brodino senza riuscire a togliergli il sapore di frigo. Senza mai abbozzare un cambio di ritmo, un sussulto d’orgoglio, un sorriso rassicurante. Colui che fu il Grande Comunicatore incespica di continuo su parole scritte da altri. Ha il fiatone, o comunque un affanno alle corde vocali che provoca in chi lo ascolta uno straniante effetto playback. Non si dimette, ma è dimesso. E l’unica volta in cui si concede una svisata da rockstar e allude all’autorevolezza che gli deriva dal passato imprenditoriale, viene zittito dal più feroce dei contestatori: la nausea.
Nel dicembre scorso, alle Idi di Scilipoti, lo avevamo visto digrignare i denti in faccia al sabotatore Fini e al mondo intero. Sette mesi dopo sembra diventato Gorbaciov nel Parlamento russo all’indomani del tentato golpe: stessa postura fragile, stesso sguardo svuotato. Solo che non ha vicino uno Eltsin al culmine della prepotenza, ma un Tremonti altrettanto acciaccato. Dalle sue parti, l’unica ventata di energia arriva quando Alfano si alza a parlare. Chissà se Berlusconi sarà davvero contento di scoprire che l’aula dedica più attenzione al delfino di quanta ne abbia riservata a lui. Di accorgersi che Bersani e Casini polemizzano direttamente con il giovane erede, invece che con lui. Lui che c’è ancora, ma è come se non ci fosse più. Come se il Berlusconi vero fosse altrove. Certo non lì. Certo non così.
Lo si è detto tante volte: Silvio è il figlio degli anni Ottanta chiamato a governare un’epoca che non capisce e non gli rassomiglia. Ma finora aveva supplito con il carisma, ricamando sulla mancanza di alternative e sull’inconscio dei tanti italiani che rimpiangono il passato più di quanto non desiderino il futuro. Ogni tanto poteva sbagliare il messaggio, ma mai il messaggero, cioè se stesso. Vent’anni fa si era presentato agli elettori già in comodo formato presidenziale, con libreria finta e sorrisone d’ordinanza. Nel corso del tempo ha continuato a sedurli: in crociera o dal predellino di un’auto. Li ha conquistati con i contratti delle cose da fare, mentre ora sventola la lista di quelle già fatte, elemosinando gratitudine e procurando invece un senso di disagio, perché è come se stesse dicendo: «Ingrati, non vi accorgete di quanto sono bravo?».
Se fosse un politico di professione, sparirebbe domattina per ricaricare le pile in vista della corsa al Quirinale. Ma lui si considera un napoleone e i napoleoni non vanno a casa. Casomai in esilio. Per loro ogni battaglia è sempre l’ultima e la posta in palio è sempre il banco: o tutto o niente. Condannati a rilanciare in eterno, non si eclissano per calcolo, ma per esaurimento. Berlusconi è rimasto a secco. E in attesa di farne un semidio alla memoria, persino l’Italia che si riconosceva in lui vorrebbe tanto cambiare specchio.
da www.lastampa.it
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“Un copione all’ennesima replica”, di Marcello Sorgi
Per unanime riconoscimento, il dibattito di ieri in Parlamento è stato una delusione. Chi si aspettava una risposta alla preoccupante, quotidiana, evoluzione della crisi non l’ha certo trovata. Così come nessuno ha visto quello scatto in avanti di Berlusconi, che tutti, a cominciare dai suoi più stretti collaboratori, ritenevano necessario. Purtroppo la ragione di questo passaggio inutile, se non proprio controproducente, è chiara: il Cavaliere è arrivato alla Camera per rispondere, non sul che fare, ma sul chi.
Dopo giorni e giorni in cui si vagheggiava di un premier ormai travolto dal vento impetuoso dei mercati finanziari, Berlusconi ha detto a tutti senza mezzi termini che non intende farsi da parte, né aprire a qualsiasi ipotesi di governo diverso dal suo.
Spalleggiato da Angelino Alfano, che parlava per la prima volta da segretario del Pdl, da cui tuttavia affiorano riserve sempre più forti sulla resistenza del leader, Berlusconi ha potuto così ripetere, parola più parola meno, la sua risaputa analisi all’acqua di rose della crisi. Una crisi americana, giapponese, mondiale, di cui a suo giudizio l’Italia fa le spese come altri e non peggio di altri, in attesa che si dispieghino gli effetti della manovra appena varata e pienamente condivisa dalle autorità europee. Per inciso, sarà la terza o quarta replica di un copione a cui Berlusconi, malgrado i consigli responsabili di esperti che meglio di lui sanno leggere i numeri inquietanti della congiuntura, non intende apportare alcun cambiamento, nel timore di giocarsi il consenso – quel poco che gli rimane – di un’opinione pubblica che prima o poi verrà nuovamente chiamata a votare.
Si dirà che è prova di incoscienza far finta di niente o quasi, davanti a quel che sta accadendo e in presenza di un estremo appello del Capo dello Stato al senso di responsabilità e all’indicazione di nuove misure – diffuso tra l’altro, da Napolitano, dopo due incontri consecutivi con il Governatore della Banca d’Italia. Oppure, che almeno un elemento di chiarezza, dal dibattito di ieri, è sortito: siccome Berlusconi non è affatto rassegnato a fare quel «passo indietro» in cambio del quale l’opposizione sarebbe disposta a fare un «passo avanti», sulla strada delle scelte dolorose invocate dagli osservatori più qualificati per fermare l’avvitamento dell’Italia sui mercati, bisognerà prendere atto che il Paese si salva – se davvero si salverà – con Berlusconi, e non senza di lui o con quel che potrebbe venire dopo di lui.
D’altra parte, anche se si tratta di un ragionamento puramente formale, che non tiene nel dovuto conto la realtà, in punta di principio non c’è nulla, se non il voto contrario del Parlamento, che obblighi il governo a dimettersi. E non è neppure una prepotenza il fatto che Berlusconi voglia avvalersi fino in fondo di questo, senza mostrare sensibilità per l’aggravarsi del quadro economico del Paese. E’ un suo diritto. Al dunque, il problema vero non sta nella sua insistenza ad andare avanti, ma nel non dire cosa vuol fare. Non lo dice, per altro, non perché non lo sappia, ma al contrario perché sa benissimo che ogni minimo spostamento da una manovra concordata tra mille difficoltà, e già contestata nella sua applicazione, aprirebbe una crepa forse insanabile nella fragile maggioranza che l’ha votata appena due settimane fa.
Stanno essenzialmente in questo, sia la debolezza del Cavaliere che i mercati percepiscono chiaramente, allontanando giorno dopo giorno i propri investimenti da noi, sia la profondità dell’abisso a cui anche ieri il Paese s’è avvicinato. Se stamane all’apertura le Borse gettano ancora più giù l’Italia, o Berlusconi dice cosa vuol fare per salvarla, o rischia di portarla al naufragio insieme a lui.
da La Stampa