Il richiamo del presidente Napolitano al premier sul decentramento dei ministeri segnala con opportuna gravità che le farse possono aprire la via a crisi gravi. Non sono mai ammissibili se coinvolgono le istituzioni e sono ancor più intollerabili nei momenti di difficoltà di un Paese.
Sono assolutamente illecite se chiamano in causa questioni generali e costituzionali. Dalla meditata iniziativa del presidente Napolitano viene anche un monito a non sottovalutare le conseguenze del concitato e sempre più dissennato dibattersi di una maggioranza in agonia. Concitato e convulso anche in quella Lega che fino a un anno fa sembrava ancora in ottima salute: le elezioni regionali del 2010 la avevano fortemente irrobustita, proiettandola oltre i suoi tradizionali confini. Proprio quel successo le avrebbe imposto di riesaminare radicalmente una politica di cortissimo respiro e priva di prospettive reali (in primo luogo europee) per gli stessi “interessi del Nord”, oggi ridotti alla mascherata dei finti ministeri di Monza (patetico approdo, in realtà, dei parlamenti padani di quasi vent´anni fa). Così non è stato.
Il confuso e pericoloso dibattersi della maggioranza costringe a riflettere a fondo sulla fase che attarversiamo, e molti interventi hanno evocato la crisi di Tangentopoli e il crollo del sistema dei partiti che essa inescò. A spingere in questa direzione non è solo il crescere della corruzione e il discredito del ceto politico ma la sensazione che siano crollati progressivamente gli architravi di una lunga stagione. L´ultimo atto, una manovra finanziaria pesantissima e socialmente iniqua, ha smentito un´intera politica basata sulle menzogne e sulla irresponsabilità economica. Ed è stata resa ancor più iniqua dall´immunità garantita agli sprechi e agli sperperi della politica: in questo scenario è apparsa ancor più intollerabile l´impunità penale dei singoli. È solo l´ultimo atto, come s´è detto: la fiducia nel “nuovo miracolo italiano” è un ricordo lontanissimo e il fallimento della “politica del fare” ha la sua conferma più drammatica nelle perduranti sofferenze e nella dolorosa incertezza di futuro dell´Aquila. E il premier che aveva più volte garantito la fine dell´emergenza a Napoli non è in grado di imporre alla Lega neppure misure elementari e doverose di provvisorio ripiego. Per questa via, come ha scritto Aldo Schiavone, la leadership di Berlusconi è diventata ormai «un grumo di macerie e potere, un impasto denso di seduzione finita e di ostinazione che resiste», mentre si intravede sempre più chiaramente sullo sfondo quell´infittirsi di reti illegittime di cui la P3 e la P4 sono state espressione. Il crescere degli scandali privati e pubblici, dunque, ha fatto solo risaltare meglio la fine annunciata di una fascinazione politica.
Volge dunque al termine su tutti i versanti un rapporto del centrodestra con il Paese che si è consunto da tempo. Qui vi è certo qualche significativa somiglianza, ma anche qualche differenza, con lo scenario dei primi anni Novanta. La corruzione aveva superato da tempo, allora, i livelli di guardia ma a far esplodere l´indignazione contribuì in modo decisivo la fine di quel “patto di tolleranza” fra governanti e governati che negli anni Ottanta aveva progressivamente sostituito il consenso. Era basato, in buona sostanza, sul prevalere degli interessi degli uni e degli altri (leciti o illeciti che fossero) sul bene comune. Tolleranza dell´evasione fiscale, condoni, e uso sempre più innaturale della spesa (non solo al Sud) ne erano stati gli strumenti, ed era proceduta di pari passo l´occupazione e la spartizione dello Stato da parte dei partiti di governo. Quella politica portava inevitabilmente al disastro ma la sua fine fu accelerata da una crisi economica profonda e dal processo di unificazione europea, che ci imponeva di invertire quella spirale. Ci impediva di ampliare ulteriormente un debito pubblico giunto al 120% del prodotto interno lordo. Ci “costringeva” ad essere virtuosi. La rivolta antifiscale di chi temeva più seri controlli fu la prima reazione degli interessi colpiti (e di più generali illegalismi), il Mezzogiorno divenne il simbolo negativo dell´abuso della spesa pubblica e la corruzione politica apparve sempre più intollerabile: la Lega cavalcò tutti questi umori e prosperò su di essi, costruendo il primo pilastro di un nuovo inganno.
Oggi come allora, e sia pure in forme diverse, una fase più lunga è al termine e la sua fine coinvolge culture, o inculture, profonde. Giuseppe De Rita ha osservato che, assieme al “governare facile” del berlusconismo, sono oggi in crisi tutti i miti della “seconda repubblica”, incentrati su «improbabili e taroccate innovazioni delle istituzioni e delle classi dirigenti», e volge al termine anche «il primato dell´individualismo e del soggettivismo etico». Già in precedenza, negli straordinari risultati elettorali recenti e nello spirito collettivo che essi hanno fatto emergere molti avevano visto la vera fine della stagione iniziata negli anni ottanta, basata appunto sul dispregio delle norme e delle regole collettive, e su un “rampantismo” sempre più avido di puntelli e sussidi (spesso illegittimi).
Andrebbe compreso meglio, però, perché le culture, o inculture, degli anni ottanta hanno potuto durare così a lungo. Perché hanno potuto sopravvivere a quello stesso crollo che avevano provocato vent´anni fa, e riproporsi poi in altre forme. Le ragioni sono indubbiamente molte, e rimandano anche al Paese, ma un dato non va rimosso: nella bufera di Tangentopoli e nel crollo di un sistema politico ormai screditato la sinistra non seppe avanzare fino in fondo, in alternativa, proposte e modelli di buona politica. Più ancora, non seppe proporre una nuova idea di Italia, e sperperò anche le potenzialità che era riuscita a metter in campo con il primo governo Prodi. Al termine di esso prevalse il ritorno a una politica vecchia e destinata alla sconfitta (lo ha ricordato benissimo, di recente, Umberto Eco). C´è da sperare che la storia non si ripeta, ma i segnali non sono confortanti: e non solo sul versante della corruzione, che vede esponenti del Partito democratico sul banco degli accusati per episodi di rilievo e che impone una riflessione non episodica. Più in generale, il Pd non ha dimostrato sin qui di essere all´altezza della ventata di speranza alimentata dai recenti pronunciamenti elettorali. Non ha ancora dimostrato di essere capace di rinnovarsi profondamente, come essa richiedeva: di qui una sostanziale immobilità e la permanente assenza di una visione lucidamente alternativa. Con molte, infelici conseguenze quotidiane.
C´è da sperare con forza che il centrosinistra sia in grado di invertire una stanca e logora consuetudine mettendo in campo con urgenza energie e progetti nuovi, adeguati al momento. Programmi e figure di altissimo profilo e di grandissima credibilità, in grado di contrastare il gravissimo deterioramento della situazione. E di permettere agli elettori di sperare ancora. È una condizione assolutamente necessaria per chiudere definitivamente una fase e aprirne con fiducia una nuova. Ma sembra ancora tutta da costruire.
La Repubblica 27.07.11