E’ durata poco più di due ore la visita della Deputata Pd Manuela Ghizzoni, accompagnata da Cècile Kyenge del comitato nazionale “primo marzo” al Cie modenese nell’ambito della mobilitazione “LasciateCIEntrare” promossa in opposizione alla circolare n. 1305 del Ministro dell’Interno, dell’1 aprile 2011, e al recente provvedimento in merito alla “Direttiva rimpatri” che prolunga la permanenza degli immigrati non identificati nei Cie da 6 mesi sino a 18 mesi.
La visita è stata l’occasione per un colloquio, svoltosi in un clima di cordiale collaborazione, alla presenza del Vicedirettore del Cie di S.Anna, Silvano Bertacchi, del dirigente per l’immigrazione, Michele Morra, e del questore di Modena, Giovanni Pinto, in cui sono stati forniti dati relativi a numero, genere, provenienza, tipologia d’infrazione amministrativa o reato degli ospiti.
Durante l’incontro sono state anche spiegate in modo dettagliato le modalità di organizzazione della struttura, dei servizi in essa offerti (ricreativi, assistenza medico-sanitaria e psicologica, servizi di mediazione culturale e traduzione), dei costi (75 euro a persona la giorno), dei tempi d’identificazione (in media entro i 30 giorni) ed eventuale rimpatrio dei trattenuti. Al termine del colloquio, si è svolto un sopralluogo nei 6 blocchi interni al Cie, dialogo diretto con i 58 uomini, in prevalenza tunisini, in stato di fermo e alloggiati in anguste camerate da 2, 3 o 4 letti.
Per la deputata Ghizzoni (che visitava il Centro per la terza volta) la mobilitazione odierna è “un’occasione per riflettere sul futuro di queste strutture, anche al fine di avviare politiche più efficaci sui fenomeni migratori coordinate a livello europeo e internazionale. Il Cie è un organismo che cambia velocemente la propria utenza: vi sono persone arrivate in Italia da decenni, trattenute a causa d’irregolarità anche amministrative, che non intendono andarsene perché qui hanno trovato il loro radicamento, o casi in cui il migrante non è più titolare di un regolare permesso di soggiorno perché non ha trovato lavoro entro i 6 mesi stimati. Altri sono di prima immigrazione: per questi non servono strutture di complessa gestione come il Cie, ma una partnership più efficace con i paesi di origine, che accelleri le risposte sull’identificazione per evitare il prolungamento della loro permanenza. – ha detto Manuela Ghizzoni all’uscita dalla visita – Bisognerebbe essere più selettivi ed efficaci nel rimpatrio di coloro che hanno compiuto reati gravi, identificarli eventualmente quando ancora sono in carcere, mentre per gli altri si dovrebbero creare canali di accoglienza. La vicenda degli sbarchi da Lampedusa ha dimostrato chiaramente un cortocircuito grave fra Italia ed Europa: il governo, infatti, ha recepito la direttiva europea in materia, ma l’ha declinata con un inasprimento delle politiche migratorie estendendo a 18 mesi la detenzione nei Cie come se questo potesse davvero tranquillizzare socialmente gli italiani, peraltro trattenendo un numero risibile di migranti. Protrarre tale permanenza è irragionevole, oltre ad avere un costo sociale ed economico elevato e totalmente a carico della comunità”.
Per Cècile Kyenge, del comitato “primo marzo” e responsabile regionale del Pd per le politiche dell’immigrazione (alla sua prima visita in un Cie): “L’impatto è quello di un carcere di massima sicurezza, con persone trattenute per una detenzione a volte solo amministrativa: è una vergogna dal punto di vista sociale, una sconfitta dal punto di vista umanitario. Il sistema dei Cie non affronta il problema socio-culturale di un fenomeno migratorio in crescita e oramai strutturale – sostiene – Lo spazio angusto in cui sono costretti a vivere gli “ospiti” della struttura, nonostante la buona volontà degli operatori, non aiuta le relazioni sociali, aumenta il disagio e la diffidenda nei confronti del Paese di accoglienza. A questo proposito, l’istituzione di un protocollo per l’assistenza e la consulenza psicologica, a riguardo dei traumi da migrazione, sarebbe auspicabile perchè strumento efficace contro il disagio. Dopo questa visita, credo che sarebbe necessario ripensare alla funzione di queste strutture. Forse erigere muri invalicabili non è la ricetta giusta: servono piuttosto politiche per l’integrazione”.