Se loro lavorassero, nelle famiglie ci sarebbero più soldi e più figli. Se invece di dedicarsi solo alla casa le donne tirassero fuori dal cassetto diplomi e lauree, l’Italia potrebbe farcela prima e meglio. Non è più solo una questione di pari opportunità e non lo dicono solo le femministe. E’ questione di ripresa economica e lo dice Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Bce.
Le sue parole («la scarsa partecipazione del femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema» ha denunciato nelle ultime Considerazioni) puntano il dito su un problema che l’Italia ha da sempre, ma che non ha mai preso sul serio.ui le donne che lavorano sono una minoranza: nel primo trimestre 2011 i dati Istat segnalano una occupazione femminile ferma al 46,4 per cento, in Europa peggio di noi fa solo Malta. Il Nord, con il suo 56,8 per cento, è vicino alla media Ue; il Sud con un risicato 30,3 ci porta indietro nel tempo, quando si pensava che è meglio che la donna stia a casa.
Non trovano lavoro le signore e meno ancora le loro giovani figlie, visto che i picchi delle disoccupazione femminile si trovano nella fascia fra i 15 e 24 anni: il tasso medio è del 32,5 per cento, ma nel Mezzogiorno si tocca la vetta del 46,1. Quasi la metà delle giovani donne del Sud non ha nemmeno un euro di reddito proprio. E quando poi trovano lavoro, le retribuzioni (lo ha ricordato Draghi stesso) a parità di istruzione ed esperienza sono del 10 per cento più basse di quelle dei colleghi maschi. Quanto alle carriere, per sbloccarle si è dovuto ricorrere ad una legge: a fine giugno, per favorire la crescita femminile è stato varato un testo che obbliga le società quotate in Borsa ad aumentare la presenza delle donne nei cda e negli organismi di controllo (le cosiddette «quote rosa»).
Con queste tendenze e mancanze l’Italia si misura da sempre, anche se la crisi ha bloccato quella che comunque sembrava una lenta ripresa (fra il 1993 e il 2007 l’occupazione femminile era aumentata di dieci punti). La novità è che non possiamo più permetterci di sprecare tanta potenzialità. «Il fattore D» come recita il titolo di un libro di Maurizio Ferrara (Mondadori 2008) è decisivo nella crescita perché garantisce più ricchezza alle famiglie «e dà un forte impulso allo sviluppo di una moderna economia di servizi».
Il lavoro delle donne, insomma, genera altro lavoro, e aumenta le possibilità di mantenere più figli. Ecco perché l’Italia, paese delle mamme a casa, ha una demografia a crescita zero, mentre in Francia gli incentivi fiscali a vantaggio delle famiglia e del lavoro femminile hanno fatto esplodere le nascite.
E’ ormai universalmente riconosciuto che proprio questo è lo snodo centrale: i servizi sociali sono scarsi e le femmine che lavorino o meno fuori casa tappano i buchi. «Il vero guaio è che il welfare all’italiana si chiama donna commenta Emma Bonino, leader radicale e vicepresidente al Senato se le percentuali del lavoro femminile sono patetiche è perché alle donne, in fondo, ancor oggi si chiede altro: che assistano vecchi, bambini e disabili, per esempio». Quindi «la strada per liberare le risorse delle donne passa attraverso i sostegni alla conciliazione fra la vita lavorativa e familiare. E su questo tema non ci siamo per niente».
Spariscono, infatti, anche i soldi già stanziati: è il caso del «tesoretto» da 4 miliardi di euro nato dai risparmi generati dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del settore statale. La Bonino, grazie anche all’appoggio di esponenti della maggioranza, aveva ottenuto che tale cifra fosse investita in politiche sociali e familiari. «Ma l’ottica del bilancio si è rimangiata tutto: quelle somme sono state utilizzate per tappare il buco nei conti dello Stato. Nobile causa, certo, ma ci hanno scippato la possibilità di avviare una riforma strutturale e un patto generazionale: madri che lavorano più a lungo pur di garantire gli asili nido ai nipotini».
Ma non solo, spiega la Bonino: con il maxiemendamento voluto dal governo la scorsa settimana per blindare la manovra di risanamento si è fatto anche peggio. «Se la riforma del fisco non produrrà effetti saranno tagliati prima del 5 e poi del 20 per cento tutte le agevolazioni. Da quelle per gli asili nido a quelle a vantaggio dell’assistenza familiare: invece di investire sulla crescita si toglie quel poco che c’è».
Stessa linea per Valeria Fedeli, leader dei tessili della Cgil. «Si pensa ancora che il welfare sia assistenza: non è vero è infrastruttura. Per incentivare l’occupazione femminile servono aiuti alle imprese che assumono le donne e che le riportano al lavoro dopo la gravidanza, ma è obbligatorio passare attraverso gli investimenti sui servizi sociali». La crisi, racconta, «ha invece prodotto una pericolosa regressione»: quando «si discute di riorganizzazioni aziendali si dà ancora per scontato che le donne preferiscano lasciare perché tanto hanno altro da fare».
Il caso della MaVbdi Inzago, nel milanese, è emblematico: la Fiom ha denunciato che, al momento della ristrutturazione, l’azienda (che produce motori elettrici per condizionamento) aveva pensato di licenziare solo le donne perché tanto «possono andare a casa a curare i bambini». I vertici dell’impresa si sono difesi negando, ma la questione spiega la Fedeli «non ha prodotto quella reazione di massa che ci saremmo aspettati».
Anche secondo l’Istat siamo a rischio regresso: lo si vede anche dal numero delle donne costrette a lasciare il lavoro dopo la nascita di un figlio e dal ritorno del fenomeno delle dimissioni firmate in bianco al momento dell’assunzione. Fra il 2008 e il 2009 ottocentomila madri hanno ammesso che, nel corso della loro vita lavorativa, sono state licenziate o messe nelle condizioni di doverlo fare in seguito ad una gravidanza. Il monito di Draghi arriva al momento giusto: serve una svolta.
Sul come arrivarci Alessandra Servidori, Consigliera nazionale di Parità che opera in raccordo con il ministero della Carfagna e quello di Sacconi, ha un approccio pragmatico: «E’ inutile sperare in risorse dalla manovra dice i soldi non ci sono, bisogna sfruttare al meglio quello che c’è». Si spiega: «Cominciamo con il precisare che negli anni della crisi il lavoro femminile non è aumentato, ma ha tenuto. Anzi, per quanto riguarda l’imprenditoria i dati Unioncamere ci dicono che nell’ultimo anno le aziende guidate da donne sono aumentate dell’1 per cento». Ora, assicura, l’unica possibilità è ripartire dagli strumenti che abbiamo in mano: «Le regioni, per esempio, possono investire quote del Fondo sociale europeo in attività di sostegno al reddito familiare, ci sono anche i fondi Inps e Inail. Le parti sociali possono utilizzare il salario di produttività per incentivare conciliazione e flessibilità. Non è teoria, è pratica: abbiamo appena avviato un Osservatorio sugli accodi territoriali che seguono questa strada, i casi sono tanti ed è ora di farli conoscere. Si va dai contratti della Ferrero a quelli della Lega delle Cooperative. E poi non dimentichiamo che il Collegato lavoro ha ridato la possibilità di utilizzare, solo per le donne, i contratti di inserimento e le sue facilitazioni fiscali».
In realtà sempre in tema di incentivi fiscali c’è chi pensa ad una via più drastica. Tito Boeri e Francesco Figari, economisti de Lavoce.info propongono di abolire la detrazione fiscale per coniuge e altri familiari a carico, figli esclusi, e di introdurre invece un credito d’imposta per le retribuzioni più basse: l’obiettivo è di sostenere il reddito delle famiglie incentivando la partecipazione al lavoro, delle donne in particolare. Ridurrebbe la povertà, soprattutto fra le madri sole.
Affari e finanza (La Repubblica) 17.07.11